La roadmap per la liberazione della banda 700 MHz ed il conseguente passaggio al T2 attraverso la rottamazione delle frequenze delle locali e la ridistribuzione, di quelle residuate dalla cernita, tra operatori di rete nazionali ed areali si complica. E non poco.
Come noto, secondo i player nazionali e la stessa Agcom, le frequenze disponibili per la radiodiffusione televisiva in tecnica digitale in T2 dopo la liberazione della banda 700 MHz (da 20 a 10) non basteranno a soddisfare le esigenze del sopravvenute esigenze di mercato.
Allo stesso tempo – sempre secondo il punto di vista degli operatori nazionali – la riserva di 1/3 delle risorse a favore delle locali prevista dal vigente ordinamento giuridico positivo e quindi fondante il Piano Nazionale di Assegnazione delle Frequenze – che prevede 15 canali DVB-T2 ripartiti in 10 reti nazionali in banda UHF, 4 reti locali in banda UHF e una rete su base regionale in banda III VHF destinata alla trasmissione di programmi televisivi in ambito locale nonché di programmi di servizio pubblico contenenti l’informazione a livello regionale – (piano peraltro sub judice al TAR) è ormai anacronistica.
Tradotto 4 frequenze per le locali sono troppe: ne basterebbero 2 per regione, destinando il resto alle nazionali.
Proposta respinta al mittente dalle locali, che, ovviamente, difendono (seppur non con la forza che ci si aspetterebbe) la riserva ex lege.
Per ovviare all’impasse, si era quindi pensato di aprire alla rottamazione di frequenze nazionali di player minori come Retecapri, Europa 7 e H3G che avrebbero potuto non essere interessati alla prosecuzione dell’attività a fronte di un indennizzo parametrato sulle cifre (ancora ignote) riservate alle locali (che dovranno tutte essere indennizzate).
Nessuno di tali player, tuttavia, ha mostrato interesse ad un’eventuale estensione della rottamazione; anzi, Europa 7, forte del recente pronunciamento del Consiglio di Stato, ha deciso di rilanciare con l’ennesimo progetto.
L’idea di Francesco Di Stefano (l’agguerrito patron della “tv che non c’è” dal 1999) è quella di una pay per view ibrida T2/IP con un dongle per ricevere sullo smartphone i programmi tv e radiofonici (radio digitale) via etere, senza quindi consumare la batteria nella stessa misura di una fruizione in streaming (in sostanza riproponendo in una nuova veste le funzionalità del fallimentare DVB-H). Perché i player minori lo facciano è chiaro: le frequenze (ri)assegnate in regime di penuria radioelettrica varrebbero di più dell’indennizzo derivante da una rottamazione misurata col peso delle locali….
Come se non bastasse, RAI non accetta che il mux regionale operi in VHF, in quanto l’utenza è ormai priva di sistemi di ricezione in tale banda e pertanto chiede che le vengano assegnate frequenze UHF e, soprattutto, non vorrebbe essere soggetta al vincolo di trasporto delle tv locali che non trovassero spazio sugli operatori di rete assegnatari.
Ora, se la pretesa di RAI di veicolazione di contenuti esclusivamente propri o comunque non di tv locali appare difficilmente difendibile, più fondata appare quella di fare impiego per i mux regionali di frequenze VHF, in quanto ciò andrebbe a vantaggio soprattutto dell’utenza, che, diversamente, sarebbe costretta ad importanti investimenti per l’ammodernamento impiantistico (per coloro che decidessero di farlo, che, prima facie, potrebbero esse ben pochi, con disastrose conseguenze per i programmi di RAI 3).
Dall’altra parte delle barricata ci sono le telco, che si sono svenate per conseguire l’assegnazione di frequenze per il 5G che si fondano in parte su quelle frequenze nella banda a 700 MHz controversa e che per ciò, giustamente, non tollereranno alcun ritardo. In mezzo, vaso di coccio tra i vasi di ferro, un governo che non sa che pesci, anzi, che frequenze, pigliare. (M.L. per NL)