Il DVB-T2? Ce lo chiedono gli italiani, le televisioni, il governo e anche l’Europa. Parafrasando dichiarazioni oggi di moda, potrebbe essere questo lo slogan della rediviva Europa 7, la tv che non c’era e sta sempre cercando di esserci.
Sfruttando l’onda delle lamentele post switch-off, provenienti un po’ da tutta Italia, Francesco Di Stefano rilancia la propria offerta, con il recente accordo raggiunto per la trasmissione delle partite di calcio di serie B, e prova a convincere gli italiani a comprare il suo decoder, sostenendo che li aiuterà a ricevere meglio anche i canali dei suoi concorrenti. Gli appoggi non gli mancano: anche l’autorevole Marco Mele su “Il Sole 24 Ore” sostiene la superiorità dell’apparecchio appartenente alla seconda generazione del digitale terrestre, anche nell’affrontare i problemi di ricezione che affliggono, a quanto pare, una parte non trascurabile della popolazione. Senza contare il recente decreto del governo Monti, che obbliga i produttori di apparecchi televisivi e decoder a mettere in commercio, a partire dal 2015, solo dispositivi compatibili con il nuovo standard. Il 2015, del resto, sarà un anno cruciale anche per le politiche dello spettro radioelettrico, con la prospettiva del passaggio di un’altra tranche di canali televisivi, quelli della banda dei 700 Mhz, agli operatori telefonici per l’internet mobile. Insomma, se l’innovazione conviene (forzatamente) agli utenti, ancora di più converrebbe per le emittenti strozzate dalla sempre più scarsa risorsa frequenziale. Quale migliore occasione, infatti, per passare ad uno standard come il DVB-T2, che consente un aumento di capacità trasmissiva che va dal 50% al 70% rispetto all’attuale? Ce n’è abbastanza per dichiarare “defunto” il neonato digitale terrestre di prima generazione, e per invitare i sempre più spaesati telespettatori a comprare l’ennesimo scatolotto che promette di far vedere i miracoli sullo schermo di casa. Peraltro, delle qualità taumaturgiche del decoder è lecito dubitare, in assenza di prove dettagliate. Dando per scontato che si tratta di un dispositivo sicuramente più sofisticato e performante dei suoi progenitori, dovendo avere a che fare con codifiche e sistemi di modulazione e trasmissione molto più complessi, non per questo lo si può proporre come alternativa salvifica agli innumerevoli problemi che la malaugurata scelta di adottare lo standard SFN (Single Frequency Network) sta creando alle reti di distribuzione delle emittenti. Solo quando verrà adottato su scala generale, il nuovo standard sarà effettivamente in grado di fornire ai broadcaster gli strumenti per migliorare l’efficienza del proprio network, ma pur sempre operando una scelta “politica” tra aumento della capacità trasmissiva (leggi: numero di programmi-servizi) e incremento dell’affidabilità e della resistenza alle interferenze. Conoscendo la situazione italiana, non si fa fatica a prevedere quale sarà l’alternativa su cui si orienteranno la maggior parte dei player nostrani. Il concreto rischio è quello di ritrovarsi con molti più canali (teorici), accompagnati da problemi di ricezione simili, se non analoghi, a quelli attuali. Con in più l’incombente e concreta possibilità che i nuovi impianti dell’internet mobile LTE mandino in tilt i centralini degli impianti di ricezione di milioni di teleutenti. Ce n’è sarebbe abbastanza per convincere anche i pochi fiduciosi rimasti che l’innovazione tecnologica, in Italia, produce solo guai. (E.D. per NL)