Roberto Viola, Segretario generale dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e vicepresidente del Radio Spectrum Policy Group della Commissione Europea, in un suo recente intervento ha ancora una volta attirato l’attenzione sulle sempre maggiori esigenze che la larga banda mobile presenta in termini di spettro radio.
Mentre l’internet delle persone, quella che si sta sviluppando prepotentemente intorno ai social network e fa dei device mobili il principale strumento di interazione, già mette alle corde le limitate risorse a disposizione degli operatori, si starebbe ora affacciando sul mercato la cosiddetta “internet delle cose”. Di “Internet of Things” si parla già da diversi anni, da quando in particolare l’espressione è stata coniata (1999) da Kevin Ashton del MIT e poi resa famosa da Auto-ID Labs, una rete di ricerca universitaria che ha coniugato il paradigma attraverso RFID (Radio-Frequency Identification) e EPC (Electronic Product Code). Tecnologie che si propongono di abbinare agli oggetti reali un’identità elettronica, e possibilmente di renderli capaci di dialogare all’interno dell’ambiente, sovrapponendo alla realtà fisica una ragnatela comunicativa dotata di meccanismi di interazione e autoregolazione. Le applicazioni sono infinite, dal monitoraggio della salute a quello dell’ambiente, dall’ottimizzazione dei trasporti alla distribuzione dell’energia (le cosiddette smart grid), fino ad arrivare ai sistemi di pagamento elettronico e alla pubblicità diffusa. Le future conseguenze sulla vita quotidiana delle persone attualmente sono imprevedibili, e ovviamente già infuria un ampio dibattito sulle implicazioni etiche, psicologiche e sociali di questa sorta di “Matrix” che si appresterebbe a irrompere nelle nostre vite. A detta di Viola, l’espandersi di queste tecnologie sembra essere semplicemente ineludibile, imprescindibile a meno di non voler perdere il treno dell’innovazione. Il problema, ovviamente, è che tutto questo ambiente virtuale ha bisogno delle frequenze radio per nascere, sopravvivere e svilupparsi. E il numero potenzialmente enorme dei dispositivi connessi rende necessario l’utilizzo di porzioni di spettro in prospettiva sempre più ampie: almeno 1 GHz, ipotizza l’esponente di AGCOM, che in altre occasioni aveva peraltro anche prospettato il diffondersi di device in grado di ricercare, identificare e utilizzare qualunque banda di frequenze libera nel range UHF (300 Mhz – 3 GHz) per connettersi alla rete. Una sorta di ricevitore universale che presupporrebbe anche un unico canale di trasmissione, pervasivo e onnipresente, capace di veicolare qualsiasi tipo di contenuto multimediale. In sostanza la fine dell’utilizzo dello spettro radio così come l’abbiamo concepito finora, con servizi, tecnologie e strumenti diversificati e incompatibili, ognuno confinato nel suo recinto frequenziale. La famosa convergenza digitale, ora ad un passo dalla sua realizzazione concreta. Una visione paradisiaca per gli operatori di telecomunicazioni e i fornitori di contenuti over-the-top, un po’ meno per tutti gli altri protagonisti dell’attuale sistema dei media, emittenti radio-TV in primis. Nel nostro paese, il primo atto del processo di trasformazione sarà rappresentato nella cornice conflittuale dell’asta per il dividendo esterno del DTT. Ovvio che, tra i protagonisti dell’attuale scenario, a molti convenga farsi passare per alfieri del nuovo che avanza, stigmatizzando gli altri come retrogradi difensori dello status quo. Le cose sono, come sempre, più complicate di quanto appare. A tutti noi il compito di verificare se sarà vera innovazione o ennesima messa in scena a base di rutilanti effetti speciali. (E.D. per NL)