La televisione cambia, ma senza fretta. Ancora una volta questa è la sintesi di quanto è avvenuto e sta avvenendo in Italia nell’ultimo anno della mutazione digitale.
Nemmeno la conclusione dello switch-off, che in pochi anni ha moltiplicato in maniera esponenziale l’offerta di contenuti (anche se magari più in quantità che in qualità), è riuscito a modificare più di tanto le granitiche abitudini delle famiglie italiane. I più recenti dati di share Auditel ci dicono infatti che il 70% del gradimento va ancora e sempre ai sette canali generalisti più importanti, ovvero le immarcescibili triadi Rai e Mediaset con l’appendice di La7. Se un anno fa dovevamo constatare che i canali digitali alternativi a più alto tasso di innovazione, tipo Rai4, non riuscivano a raggiungere il punto percentuale di share, alla fine del 2012 non si può certo parlare di exploit, visto che il canale di Freccero, insieme a Iris di Mediaset, ha raggiunto lo stratosferico risultato dell’1,1%, mentre tutti gli altri marchi dei grandi network, pur garantendo in alcuni casi una programmazione di qualità, stanno ancora ampiamente sotto la soglia unitaria. E’ come se gli italiani, una volta cambiato telecomando e terminata la guerra con la nuova scatoletta chiamata decoder, avessero deciso di ignorare bellamente tutte quelle sigle sconosciute e un po’ misteriose accumulatesi oltre il numero 10 (o 20, se c’era qualcuno particolarmente affezionato alle tv locali). Rimane del resto ancora l’impressione che siano proprio coloro che fanno le politiche editoriali a non essere convinti delle potenzialità della televisione tematica, preferendo le comode sicurezze e i sicuri introiti derivanti dalle corazzate generaliste. Neanche i vistosi cali di investimenti pubblicitari sembrano intaccare questa visione un po’ retrograda, che peraltro è confermata dai comportamenti dell’audience, in un classico meccanismo di retroazione che certo non giova al dinamismo dello scenario già abbastanza stagnante della televisione nazionale. L’atteggiamento di Mediaset e Sky è in parte comprensibile, essendo evidente il conflitto di interessi tra l’esigenza di investire in una programmazione in chiaro di qualità e quella di promuovere i prodotti premium a pagamento. Non altrettanto chiaro è il motivo (disinteresse? volontà politica?) per cui la Rai sembra non essere in grado di mettere in campo una strategia di marketing anche solo sufficiente a far conoscere la propria offerta alternativa, il cui livello qualitativo è indiscutibile. Lo scenario, all’alba della totale digitalizzazione della televisione italiana, sembra confermare le previsioni di quanti sostenevano che il passaggio al DTT sarebbe stato essenzialmente funzionale all’espansione della pay-tv, sia sul satellite che, soprattutto, sulla terra. Nonostante tutto però, complice anche la crisi economica, i bilanci delle televisioni a pagamento non sembrano giustificare lo sforzo tecnologico e finanziario sostenuto, oltre che le innumerevoli vittime lasciate lungo il cammino. Esiste comunque una minoranza di italiani, che peraltro si prevede rimarrà tale ancora per molto, che continua nonostante tutto ad appassionarsi alla tecnologia e alle nuove prospettive che è in grado di offrire, nonostante i prezzi spesso iniqui e i mille paletti imposti dalle strategie di protezione dei contenuti. E, qualità a parte, il valore aggiunto che gli ex-telespettatori più evoluti sembrano apprezzare maggiormente è quello della flessibilità: flessibilità di spazio, che consiste nella possibilità di fruire dei propri video preferiti in qualsiasi luogo, sui propri dispositivi mobili preferiti; flessibilità di tempo, ovvero libertà di vedere e rivedere gli stessi contenuti in qualsiasi momento, senza le limitazioni imposte dal palinsesto. Tempo fa un semplicissimo servizio (gratuito) in rete, che permetteva di programmare registrazioni dei programmi televisivi per poi rivederli o scaricarli in seguito, aveva raggiunto livelli di popolarità eccezionali, salvo essere poi affossato a seguito delle rimostranze dei broadcaster. Adesso si scopre che gli utenti (paganti) di Sky gradiscono molto la possibilità di richiedere i propri programmi in differita on-demand, al punto che le repliche sono in grado di triplicare (!) l’audience. E’ evidente che sul mercato è presente una domanda per questo tipo di servizi, largamente insoddisfatta a causa dell’estrema riluttanza dei network, che concedono l’opzione solo all’interno di corposi pacchetti-abbonamento. L’assenza di un vero e proprio distributore di contenuti VOD a buon mercato, sul tipo dell’arcinoto NetFlix d’oltreoceano, si riflette nello scarso appeal delle offerte pay, nonché nel proliferare dello scaricamento illegale, immune a qualsiasi crisi. I segnali di un cambiamento dei modelli di fruizione televisiva sono insomma presenti da tempo, ma le dinamiche sono ostacolate non solo dalla scarsa attitudine culturale al cambiamento dell’utente medio italiano, ma anche paradossalmente dalla stessa industria di settore, molto spesso arroccata su posizioni di difesa dello status quo e senza idee sul proprio futuro. Internet per ora sta a guardare, in attesa dei prossimi investimenti sulla rete fissa e mobile, e soprattutto di una rivoluzione culturale che appare sempre più come un miraggio all’orizzonte delle famigerate Agende digitali. (E.D. per NL)