Come immaginabile, le scasse frequenze del dividendo interno che andranno all’asta frutteranno allo Stato ben poco. Sia chiaro: sempre ammesso che qualcuno a quell’asta parteciperà, stante la (pessima) qualità delle risorse radioelettriche residuate dalla cernita Agcom.
Non ci sarebbe infatti da stupirsi se alla gara per l’assegnazione del digital dividend non si presentasse nessuno, posto che le migliori frequenze originariamente ritagliate dall’Agcom, in ossequio alle prescrizioni UE (che peraltro ha chiesto chiarimenti sulla circostanza), per i nuovi entranti o per i player minori (cioè i network provider nazionali con uno o due mux) saranno invece destinate allo sviluppo della tecnologia LTE (ubi maior minor cessat…) ed alla definizione delle interferenze che affliggono l’etere tv digitale dopo la deleteria assegnazione conseguente al pasticciato switch-off. Sta di fatto che, evidentemente consci della scarsa qualità dei canali posti a gara, la base d’asta per la gara sulle frequenze del digitale terrestre è stata fissata al di sotto dei 100 milioni di euro, quindi ad una cifra ben lontana dai 240 milioni di cui (troppo ottimisticamente) si parlava subito dopo l’approvazione del provvedimento da parte dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Nel merito, il prezzo di partenza dei tre lotti di frequenze, fissato fra i 30 e i 36 milioni ciascuno, è meno della metà degli 80 ipotizzati in precedenza. E ciò a dispetto delle dichiarazioni del presidente dell’Agcom, Angelo Marcello Cardani, che, in un’intervista rilasciata a Repubblica venerdì scorso, aveva definito come "plausibile" l’ipotesi prospettatagli di una base d’asta di "4 milioni annui per rete in vendita, per i 20 anni di durata della concessione". Ora, archiviata l’ipotesi del minitesoretto da 1/4 di miliardo di euro si torna alla realtà. (M.L. per NL)