Si registra in questi giorni un nuovo intervento di Francesco Posteraro, commissario dell’Autorità per le comunicazioni, che alimenta l’infinito dibattito sulla Delibera AgCom n. 494/14/CONS, ovvero il provvedimento che fissa i nuovi criteri per la determinazione dei canoni legati ai diritti d’uso delle frequenze televisive.
In difesa della Delibera, Posteraro chiama ancora una volta in causa il governo, al quale la norma attribuisce ampi margini di discrezionalità, sia in materia di “sconti” per le emittenti locali che per quanto riguarda la progressività di applicazione del nuovo regime. I punti critici, si sa, sono proprio questi: la determinazione dei contributi con i nuovi criteri rappresenterebbe probabilmente un colpo al cuore per la miriade di piccoli operatori di rete nata dopo lo switch-off, mentre sarebbe una boccata di ossigeno per i grandi, Mediaset (con E.I.Towers) e Rai (con RaiWay) prima di tutto, grazie alla gradualità di imposizione che, almeno per i primi anni, comporterebbe esborsi notevolmente ridotti. Il governo, in realtà, ha anche provato ad intervenire, ma non esattamente con un progetto coerente di riordino del settore. Ha prevalso invece ancora una volta la tendenza a conservare l’esistente, ed è noto ai più come si sia ingloriosamente conclusa la vicenda dell’emendamento “congela-Delibera” alla Legge di stabilità, clamorosamente bocciato dalla Commissione bilancio del Senato. La questione dei contributi è però solamente l’ultimo dei nodi che stanno inesorabilmente venendo al pettine dopo la conclusione dello switch-off, la transizione italiana alla TV digitale che, paradossalmente, sta determinando profonde trasformazioni nel mercato radiotelevisivo pur essendo stata concepita con l’intenzione di riprodurre gli equilibri dell’analogico. E’ frutto di tale impostazione, del resto, se ora ci ritroviamo con centinaia di operatori di rete che sono anche fornitori di contenuti (le emittenti locali) e non riescono a far quadrare i conti, frequenze inutilizzabili perché non coordinate con gli stati esteri e un sistema di numerazione dei canali incredibilmente ancora non definitivo, fonte di innumerevoli contenziosi. Al di là delle inevitabili implicazioni politiche che la vicenda della cosiddetta “gestione delle frequenze” ha avuto e continua ad avere nel nostro paese, la chiave di lettura sta nell’ineluttabile (a quanto pare) incapacità dei governi, di qualsivoglia colore, a disegnare una strategia di sviluppo in un settore la cui importanza, nell’economia della società dell’informazione, dovrebbe essere evidente. Il mercato, intanto, si muove in una direzione precisa. Integrazione orizzontale e concentrazione sono le parole d’ordine. Emergono continuamente nuove ipotesi di acquisizioni e fusioni tra operatori TLC, mentre si impone la separazione tra i gestori delle infrastrutture di rete e i fornitori di contenuti o di servizi. Chi ha finora operato sui due fronti cerca di concentrarsi sul proprio core business, il più vicino alle proprie competenze e possibilità di investimento. E proprio la capacità di investire e di sopperire agli ingenti costi fissi sta facendo la differenza nel mercato delle infrastrutture di trasmissione, siano esse via cavo o via etere. Pochi grandi operatori, nazionali e internazionali, avranno la capacità di gestire le reti del futuro, dove transiteranno indifferentemente contenuti di ogni genere, compresi quelli televisivi. Nel nostro piccolo, la vicenda EI Towers-RaiWay (che potrebbe allargarsi anche a qualche telco) è sintomatica di tale processo di concentrazione, e per questo è vista positivamente da quei (pochi) analisti che, chiamatisi fuori dalla consueta prospettiva politica, pensano ad una possibile evoluzione del settore in chiave di maggiore razionalità ed efficienza. Ciò che sta accadendo nel mondo dei media è una trasformazione che non dovrebbe stupire. Di convergenza e separazione rete-contenuti già si parlava quando gli switch-off al digitale erano in fase di pianificazione, e il commissario AgCom ha buon gioco nel dire che le nuove norme non sono che il frutto dell’applicazione di direttive europee ormai datate, la cui logica mal si sposa con il nostro unicum rappresentato da tutti quei malcapitati operatori integrati verticalmente. La responsabilità del caos attuale va ricercata tra chi, da una parte e dall’altra, ha cercato per decenni di perpetuare uno status quo che si sapeva benissimo non avrebbe retto alla sfida del mercato e delle nuove tecnologie, preferendo alla progettazione strategica la logica del “tirare a campare”. C’è, ovviamente, ancora un margine di manovra per cercare di limitare i danni di un cambiamento finora mai consapevolmente e razionalmente gestito. Occorrerebbe innanzitutto che i soggetti istituzionali si impegnassero, ciascuno nel proprio ruolo, ad assumersi le dovute responsabilità: il Governo ad affrontare in maniera decisa ed organica le difficoltà di un settore importante, non solo per l’economia; le Autorità indipendenti a vigilare sulle evoluzioni del mercato. (E.D. per NL)