In attesa che il governo riprenda in mano la controversa questione dei canoni per i diritti d’uso del digitale terrestre, dopo che in commissione alla Camera è stato bocciato l’emendamento al Milleproroghe, che trasferiva dall’Agcom al ministero la competenza sulla riforma della materia delle frequenze televisive, facciamo il punto della complessa situazione.
A seguito dell’approvazione della L. 44/2012, frutto della conversione in legge di un decreto del governo Monti, i network provider non dovranno (rectius, dovrebbero; siamo in Italia, baby…) versare a titolo di canone l’1% del fatturato, ma una cifra fissa connessa ai parametri di assegnazione frequenziale, senza alterare in diminuzione il gettito a favore dello Stato. In altri termini, aumentando gli importi o, al più, prevedendo un versamento non inferiore a quello fotografato dal legislatore del 2012. Sennonché, nell’estate scorsa, la Commissione UE aveva avvertito il Mise che lo schema del provvedimento adottato dall’Autorità per dare esecuzione agli intenti della L. 44/2012 non andava bene, sicché il 23 luglio il sottosegretario alle Comunicazioni Antonello Giacomelli aveva scritto all’Agcom, che aveva rinviato tutto a settembre, dopo un riesame delle eccezioni/censure comunitarie. Rinvio invero solo formale, posto che il 30/09/2014 la Delibera veniva approvata così com’era stata licenziata a luglio, in pedissequo ossequio alla L. 44/2012. Nella sostanza, i superplayer Rai e Mediaset non avrebbero pagato più 26 e 17 milioni, ma una cifra compresa tra 3 e 13 milioni. La differenza, rispetto al gettito da mantenere invariato, sarebbe stata prelevata dalle tasche degli altri operatori, nazionali minori e locali. Succedeva poi che, finito il governo Renzi al centro di infinite polemiche, il Mise approvava un decreto il 29/12/2014 che congelava la situazione, rimandandone la definizione e chiedendo agli operatori di versare un acconto del 40 per cento calcolato sul previgente sistema di contribuzione (stabilendo il saldo per fine 2015). Con la bocciatura dell’emendamento del Milleproroghe, che avrebbe dovuto suggellare l’intendimento tracciato dal decreto ministeriale, l’attuale situazione è di antinomia, posto che restano in vigore sia la controversa delibera Agcom che il provvedimento el Mise di fine 2014 (altrettanto singolare, sul piano giuridico). Col risultato che gli operatori non sanno ancora quanto dovrebbero versare (anzi, lo sanno – visto che è stato determinato da Agcom con la delibera del 30/09 – ma preferiscono non ammetterlo a se stessi, considerato che l’applicazione comporterebbe la chiusura di gran parte degli stessi). Secondo i maligni, in realtà, il balletto normativo è parte dell’occulta strategia volta a limitare il numero degli operatori di rete esistenti, favorendo la concentrazione delle frequenze disponibili tra grandi network provider (nazionali e locali) e player tlc (affamati di banda per lo sviluppo dell’internet mobile). Ora, che moltissimi operatori di rete locali e qualche nazionale sulla carta non abbiano le potenzialità per gestire le frequenze assegnate è un dato di fatto (conseguente alla scellerata decisione politica – assunta in esito all’altrettanto sciagurata strategia dei sindacati di categoria delle tv locali di condividere l’insostenibile formula: 1 canale analogico = 1 mux -). Ma il metodo adottato per riassestare il sistema (certamente bisognoso di una revisione qualitativa e quantitativa per il peccato originale anzidetto) difficilmente passerà le forche caudine della Commissione UE. Ovviamente ammesso che, nelle more, i giudici amministrativi non censurino la delibera Agcom. (M.L. per NL)