La conclusione della crisi di governo in atto, prevista – in un senso o nell’altro – per il prossimo 14 dicembre, ci dirà se, come auspicato da MSE-Com e Agcom, l’asta per l’assegnazione dei canali 61-69 UHF si terrà a breve o se tutto verrà rimandato a data da destinarsi con regole meno penalizzanti per le emittenti locali.
Intanto, però, gli editori areali, ingannati dall’esecutivo dalle mille luccicanti promesse sconfessate dai fatti (nell’indifferenza di un ente di garanzia che non si sa bene cosa garantisca), sono di nuovo sul piede di guerra. Se già la situazione era incandescente con l’arrivo dello switch off del blocco televisivo più importante d’Italia (Piemonte orientale, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Fruili Venezia Giulia, tra fine novembre e prima metà di dicembre), con i continui rinvii e i problemi legati allo spazio ristretto (in quanto fagocitato dai network provider nazionali) in Veneto e Friuli, l’emendamento al DDL sulla Stabilità ha portato ulteriore sconvolgimento nell’emittenza locale, abbandonata da un governo che non fa nulla per celare la priorità assegnata ai broadcaster maggiori. Nel DDL sulla Stabilità, opportunamente emendato, si legge che gli introiti derivanti dall’asta dei canali 61-69 UHF destinati (su indirizzo UE) al potenziamento della banda larga in mobilità, dovranno essere depositati nel bilancio dello Stato entro settembre 2011. Ciò vuol dire, senza mezzi termini, che l’asta che assegnerà agli operatori di telecomunicazioni tali frequenze dovrà tenersi al più presto e comunque non oltre il primo semestre del nuovo anno. A meno che non cada il governo, eventualità che farebbe slittare tutto e che, a questo punto, gli editori locali coinvolti non potrebbero che auspicare. Ma come si è arrivati a questo ennesimo pasticcio? La Conferenza di Ginevra del 2006 sulle Tlc aveva stabilito il termine del 2015 per l’assegnazione, in tutta Europa, dei canali alti della banda UHF televisiva, a servizi wireless. L’obiettivo era quello, innanzitutto, di sfruttare al meglio l’etere, valorizzando servizi di utilità sociale che nel web mobile trovano indiscutibile aiuto, garantendo maggior copertura al wireless con un minor numero di ripetitori e contribuendo così a portare la banda larga nelle zone più remote del Paese, tentanto d’abbattere il digital divide. Il tutto entro il 2015. L’Italia, invece, guardando all’esempio tedesco (dove, però, l’etere è ben regolamentato), ha deciso di anticipare ai prossimi mesi l’asta, per evidenti problemi di cassa e di condizione da terzo mondo in tema di offerta internet in mobilità. Ma le cifre che Berlino è riuscita a tirar fuori dalla vendita della porzione di spettro di riferimento (circa 4,5 miliardi di euro) sono una chimera alle nostre latitudini. Il MSE-Com, infatti, punta a una cifra che si aggira sui 2,4 miliardi (tenendo conto che la base d’asta non potrà non risentire del fatto che le frequenze non sono libere), il 10% dei quali (240 milioni, nella migliore delle ipotesi), come scritto nell’emendamento citato in apertura, dovrebbe andare come indennizzo ai poveri editori cui le frequenze verranno sottratte prima della naturale scadenza delle assegnazioni appena conseguite. Un po’ poco, considerato che le emittenti da rimborsare sono centinaia e rigorosamente tutte locali (a parte un canale 69 UHF assegnato a Europa 7 come "cerotto" tra i VHF 8 sfn). Si tratta di un vero e proprio “saccheggio alle emittenti locali” ha denunciato il Comitato Radio e Tv Locali di Milano oggi. Molti editori, è inutile dirlo, ricorreranno al TAR del Lazio, facendo pesare l’esercizio dell’attività non raramente ultratrentennale, la disparità di trattamento coi nazionali, l’enorme presa in giro costituita dall’assegnazione di diritti d’uso avvenuta nemmeno un mese fa per frequenze che ora saranno attribuite al miglior offerente e, in generale, un coacervo di tanti di quei vizi di legittimità per violazione di legge ed eccesso di potere che anche uno studente alle prese con l’esame di diritto amministrativo non farebbe fatica ad individuare. Tutto questo, dopo che Romani, lo scorso luglio (quand’era ancora un insofferente viceministro), a proposito dell’asta, aveva detto che si sarebbe trattato di un processo “da fare rispettando la Storia di questo Paese e gli imprenditori che, anche a livello locale, si sono impegnati in questo settore”. Imprenditori locali, ex colleghi, che Romani aveva invitato a consorziarsi al fine di rendere superflua l’occupazione di alcune frequenze, e a cui aveva promesso una sorta di buonuscita, ora ufficializzata ma che a poco servirà, dato l’ampio numero di soggetti coinvolti e affamati dalle difficoltà immani di questo periodo di crisi finanziaria ed economica. Romani aveva anche promesso di reinvestire i soldi ottenuti per rafforzare il comparto tv; ma tutta questa fretta appare dovuta più alla necessità di fare cassa che a una presunta volontà di incentivare lo sviluppo televisivo combattendo il digital divide. Fretta e bisogno di quattrini che però, beninteso, lasciano curiosamente intoccate le infrastrutture dei player nazionali, che, anzi, usciranno dallo switch-off con più risorse di quante ne avvesero in analogico. Ma siamo in Italia, baby, dove "ghe pensa lu". Semper. (L.B. per NL)