L’articolista deve adoperarsi per offrire un servizio con il valore aggiunto della verifica inerente l’attendibilità della fonte dalla quale si è appreso il fatto.
Il nostro ordinamento, nell’ambito del diritto alla libera manifestazione del pensiero sancito dall’ art. 21 della Costituzione ed archetipo della libertà di stampa e del diritto di cronaca, ha conosciuto – anche grazie all’evolutiva interpretazione giurisprudenziale dei principi ispiratori dello stato di diritto – molte ed eterogenee sfaccettature delle facoltà e degli oneri inerenti l’esercizio della professione giornalistica. La narrazione di un fatto, a detta dei giudici, richiede che l’articolista impegnato nella diffusione della notizia si adoperi per offrire un servizio con il valore aggiunto della verifica inerente l’attendibilità della fonte dalla quale si è appreso il fatto. In queste poche ed elementari considerazioni, s’intende racchiudere il senso della nota sentenza della Corte di Cassazione risalente al 1983 (Cass. SS.UU., 19/03/1983), apripista nell’attribuzione del valore di scriminante del reato di diffamazione a mezzo stampa ritenuto integrato dall’autore di un articolo con un contenuto successivamente rivelatosi difforme dalla realtà. Si tratta della figura giurisprudenziale della cosiddetta verità putativa, finzione che consentirebbe l’intervento dell’art 51 c.p. in ambito giornalistico. In tale esimente, infatti, quello che rileva non è tanto la non corrispondenza al vero del fatto narrato, bensì la percezione di veridicità avvertita dall’autore. Qui, la buona fede soggettiva soppianta l’elemento psicologico della colpa con la conseguenza che si ritiene scusabile l’errore commesso del cronista laddove questi dimostri di essersi prodigato nel verificare adeguatamente la propria fonte e se, ulteriormente, il fatto risulta meritevole di essere appreso dai cittadini ed esposto con la dovuta continenza. Nonostante i principi ispiratori e le regole della cronaca siano ben fissati dalla legge e dall’ermeneutica dei giudici, i cortocircuiti mediatici, è noto, non mancano. Recentemente, una sentenza pronunciata dal Tribunale di Roma condensa nella propria massima i passi in avanti compiuti dalla giurisprudenza in questa delicata materia. "In merito al reato di diffamazione a mezzo stampa"- affermano i giudici capitolini – "(…) la non veridicità dei fatti affermati (…) esclude che possa riconoscersi l’esimente del diritto di cronaca, per la cui ricorrenza è richiesta in primo luogo, come è noto, la verità dei fatti narrati. Né vi è alcuno spazio per il riconoscimento di detta esimente sotto il profilo putativo, considerato che a tal fine è necessario che l’agente l’abbia esaminato, controllato e verificato in termini di adeguata serietà professionale la notizia in rapporto all’affidabilità della relativa fonte di informazione, e che sia rimasto vittima di un errore involontario (…)" (Cfr. Tribunale di Roma – IV sezione monocratica – 13 gennaio 2009, in www.diritto.it , 07/01/2010). Alla luce di questo orientamento, appare adeguato considerare la fonte della notizia come il vero terreno d’indagine sul quale, spesso, ci si deve muovere al fine di valutare l’integrazione o meno del reato di cui all’art. 595 c.p.. In proposito, si ritiene che gli unici spunti sui quali non incombe sul giornalista il dovere di verifica ed accertamento siano quelli così detti "ufficiali", ovvero diffusi da organi statali di un certo rango. La notizie apprese nell’ambito di una conferenza stampa organizzata dal Governo o delle forze di polizia, ad esempio, sono vere per definizione; ancora, i fatti accertati in una sentenza passata in giudicato rispondono al vero (processuale) per definizione. Se così non fosse, la stessa credibilità dello Stato verrebbe messa in discussione. Ovviamente, l’essenza del diritto di cronaca e del giornalismo d’inchiesta (del tutto legittimo, è bene ricordarlo) si svincola ineluttabilmente dalla narrazione "autorizzata" ed è proprio in questi casi che il connotato scriminante della verità putativa ritrova il suo habitat naturale. L’humus sul quale cresce rigoglioso è il retroscena della notizia ufficiale – potremmo dire la contro-notizia – certamente non esente dall’essere diligentemente setacciato in quanto maggiormente foriero di equivoci e zone grigie. L’abilità del cronista "d’assalto", allora, consiste proprio nel percorrere la sottile linea di demarcazione tra l’impersonalità del fatto narrato e la sfaccettatura sulla quale il regista della narrazione intende porre il proprio accento critico. Pezzi del genere risulteranno spesso scomodi soprattutto laddove si riferisca di questioni afferenti la vita e le relazioni sociali di taluni individui – magari lasciati al margine di certe vicende dalle "veline autorizzate" – tirati in ballo da curiosi articolisti manovratori di uno scoop da prima pagina. Qui, l’insidia della diffamazione a mezzo stampa pende come una spada di Damocle sulla testa dei professionisti più avventurosi e, anche in questi casi, la giurisprudenza di legittimità non ha mancato di fornire il proprio orientamento. Passando in rassegna a volo d’uccello alcune pronunce sulle quali ci siamo soffermati in altre occasioni, sottolineiamo come il Supremo Collegio ammetta la ricostruzione critica dei fatti da parte del cronista come esercizio del diritto di cronaca; ancora, gli Ermellini avallano la narrazione satirica – posto che non sia gratuitamente offensiva – ancorché connotata dai grotteschi toni propri di questo genere di esposizione; in ultimo, l’ordinamento stesso riconosce la possibilità di contraddire la "fonte ufficiale" – quando questa sia una sentenza passata in giudicato – laddove emergano in un tempo successivo alla pronuncia definitiva nuovi elementi di prova meritevoli di essere esaminati perché potenzialmente capaci di confutare le fondamenta logico-argomentative della statuizione. Anche la verità dei fatti narrati in un atto giurisdizionale di ultima istanza, dunque, può essere errata perché poggiata su di una verità dai piedi d’argilla e dunque passibile di essere rivisitata attraverso il ricorso all’istituto della "revisione". Concludendo, è bene ricordare che uno degli indici utilizzati per valutare il grado di maturità di una democrazia è divenuto proprio quello che si basa su di un rating assegnato alla libertà di stampa ed al pluralismo dei mezzi d’informazione in un determinato Paese. Ulteriormente, la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo (CEDU) ha da anni ritagliato il ruolo di "dog watching" a giornali e stampa in generale nei confronti dei poteri forti. Tutto ciò che i giornalisti apprendono è meritevole di essere raccontato purché esposto alla stregua dei canoni del diritto di cronaca. Manifestare avvedutamente un pensiero, ricostruire una vicenda, narrare anche i fatti più scomodi, non dovrebbe essere mai essere considerata un’ operazione eversiva condotta da organi d’informazione "deviati", bensì un’autentica conquista di civiltà. (Stefano Cionini per NL)