Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, intervenendo sulla vicenda di un sottoufficiale della Guardia di Finanza che, sul proprio profilo Facebook, aveva pubblicato commenti valutati lesivi della reputazione di un collega, seppure non indicandone il nome.
L’imputato, dapprima condannato dal Tribunale Militare ai sensi dell’art. 227 c.p.m.p., veniva assolto dalla Corte d’Appello per insussistenza del fatto, con motivazione fondata sulla circostanza in base alla quale, rispetto alla generalità degli utenti del social network, soltanto una ristretta cerchia di soggetti avrebbe potuto identificare la persona offesa, non avendo il militare individuato il destinatario dell’improperio. Smentiva l’assunto la Corte di Legittimità, offrendo l’occasione per una breve riflessione sugli orientamenti predominanti relativamente al reato di diffamazione c.d. “aggravata”, storicizzato – ci si passi l’espressione – in relazione al consolidamento della comunicazione 2.0. In proposito, pare non esservi più alcun dubbio che il delitto in questione, se integrato con il mezzo del social network o più ingenerale attraverso lo strumento di internet, debba essere ricondotto alla fattispecie aggravata di cui all’art. 595, comma 3, c.p., risultando commesso attraverso un mezzo di pubblicità idoneo a raggiungere un numero indeterminato di soggetti. In proposito, nulla cambia se la cerchia dei destinatari è ristretta a soggetti con i quali, per il tramite di una community virtuale, si abbia un contatto, poiché ciò che rileva è l’attività di scambio di informazioni e commenti (evidentemente pubblici e lesivi della reputazione di taluno) via facebook, se non addirittura – come nel caso trattato dalla Suprema Corte – l’aggiornamento del proprio “stato”. L’offeso, seppure non identificato, diverrebbe potenzialmente identificabile “per relationem” con il soggetto autore del post. Per il militare denigrato, difatti, la Corte di Cassazione – nel giudizio in commento – ha ritenuto agevole una sua immediata identificazione come destinatario di affermazioni lesive della sua reputazione, seppure di tale soggetto mai venisse esplicitato il nome. Tale circostanza – valutata in sede di legittimità idonea all’integrazione del reato di diffamazione aggravata – ha per il caso di specie orientato la decisione di rinvio ad altra sezione della Corte Militare d’Appello. Il principio enunciato dagli Ermellini, infatti, tende ad orientare il giudizio rescissorio sulla valutazione dell’elemento soggettivo dell’agente che, se consapevole di annotare una frase lesiva dell’altrui reputazione e con l’intenzione di far conoscere il suo “pensiero” a più persone, dovrà essere ritenuto colpevole del rato ascrittogli. In altri termini, il reato di diffamazione non richiede nell’agente il dolo specifico, ma quello generico. (S.C. per NL)