Diffamazione a mezzo stampa: piccole imprecisioni o inesattezze non inficiano il rispetto della verità, pertinenza e continenza dei fatti narrati

Una recente sentenza della Cassazione Civile (19086 del 02/09/2009), decidendo una controversia riguardante l’azione di risarcimento danni per diffamazione a mezzo stampa, ha ritenuto corrette e prive di vizi logici le motivazioni contenute nelle sentenze dei giudici di merito, di primo e di secondo grado, che avevano respinto le richieste del preteso diffamato.

I fatti narrati nell’articolo oggetto della controversia sono infatti stati ritenuti leciti e rientranti nel corretto esercizio del diritto di cronaca. Come noto, il diritto di cronaca è espressione del più generale diritto, previsto dall’art. 21 della Costituzione, di manifestare liberamente il proprio pensiero. Tale libertà di manifestazione del pensiero non può essere assoluta, poiché potrebbe stridere con altri diritti costituzionalmente garantiti, quali il diritto all’onore, al decoro ed alla dignità personale. L’utilizzo della stampa quindi deve avvenire in modo da non ledere i diritti delle persone oggetto dei fatti narrati. Per far ciò, il giornalista è tenuto a rispettare dei limiti che sono stati nel tempo stigmatizzati dalla giurisprudenza. Deve dunque rispettare i limiti della “verità” dei fatti narrati, della “pertinenza”, ossia dell’interesse pubblico alla conoscenza dei fatti, e della “continenza”, ossia della correttezza formale e sostanziale dell’esposizione delle notizie. Nel caso di specie, l’avere parlato di reati al plurale, invece che al singolare (essendo la fattispecie delittuosa contestata ad un determinato soggetto in realtà solo una), oppure essersi riferito a quanto stabilito in una “sentenza di primo grado”, senza specificare che si trattava di sentenza non definitiva e che era in corso il grado di appello, ed ancora, l’avere affiancato le vicissitudini giudiziarie di diverse persone, seppure afferenti a fattispecie delittuose differenti, sono stati considerati dalla Suprema Corte errori che fanno “salva la buona fede del giornalista”. Infatti, quanto alla doglianza riguardante l’avere parlato di “pluralità di reati”, anziché di reato, la Corte di Cassazione ha osservato che i giudici di secondo grado avevano rilevato che, pur trattandosi in realtà di condanna per un solo reato, questo aveva comunque riguardato la reiterazione di più comportamenti costituenti un reato, cosa che giustifica l’operato del giornalista ed il suo errore commesso in buona fede. Quanto alla lamentata assimilazione con i reati commessi da altro soggetto, la Corte di Cassazione ha ritenuto corrette ed esenti da vizi le motivazioni contenute nella sentenza impugnata, che avevano portato a ritenere insussistente nell’artico giornalistico un collegamento esplicito tra le due situazioni. Anche l’avere parlato nella notizia giornalistica solo di “sentenza di primo grado” è stato ritenuto lecito e non diffamatorio dalla S.C. Infatti parlare di “sentenza di primo grado” equivaleva, per il lettore medio, ad affermare la non definitività della stessa, per cui anche sotto questo aspetto i limiti della verità e della continenza sono stati rispettati. Se dunque la notizia rispetta la verità sostanziale dei fatti in essa riportati, le inesattezze secondarie o marginali non determinano di per se stesse il mancato rispetto del diritto di cronaca e non determinano dunque il concretizzarsi di una valenza diffamatoria del contenuto dell’articolo giornalistico.(D.A. per NL)

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