Da oggi pomeriggio sarà all’esame alla Camera il tanto discusso disegno di legge n. 1615 A in materia di intercettazioni telefoniche, telematiche e ambientali, per il quale l’opposizione ha già presentato un’impressionate sequela di emendamenti facendo sapere di coltivare l’anima dell’ostruzionismo.
Pene inasprite sarebbero previste per i giornalisti che pubblicano integralmente testi di intercettazioni prima della conclusione delle indagini preliminari e – nell’ultima stesura uscita dalla Commissione Giustizia del Senato – mentre sarebbero diminuite quelle comminate agli editori "compiacenti". Ulteriormente, questo particolare strumento investigativo, per il quale si è avuto un vero e proprio exploit negli ultimi anni, potrà essere utilizzato dagli inquirenti – allo stato attuale dei fatti – con estrema parsimonia ed in un numerus clausus di reati. Procedendo in una carrellata sulle principali novelle al c.p.p. che il legislatore è in procinto di approvare dopo ben due anni di gestazione parlamentare (il primo testo d’iniziativa del Guardasigilli Angelino Alfano risale, infatti, al 2008), sono salite subito alla ribalta della cronaca quelle che riguarderebbero più da vicino gli operatori dell’informazione. La prima concerne l’attività dei giornalisti, i quali, fintantoché l’indagine preliminare non sarà conclusa, potrebbero incassare il divieto di pubblicazione integrale degli atti d’indagine (consentito, invece, il riassunto). Qui c’è poco da scandalizzarsi, se veramente la modifica manterrà – come sembrerebbe – in vigore il reato previsto e punito dall’art. 684 c.p (arresto fino a trenta giorni) con una modifica che sostanzialmente riguarderebbe i valori della multa comminabile, il cui minimo edittale passerebbe da 51 a 1.000 euro, raggiungendo- nei casi più gravi – 5.000 euro contro i 258 attuali. Divieto assoluto, invece, di divulgazione delle intercettazioni ambientali. La seconda novità in questa materia, di fatto, potrebbe estendere il controllo sui contenuti anche nella sfera dell’editore che, al fine di scongiurare la una sorta di sanzione per omesso controllo da 25.800 euro a 309.800 euro, dovrebbe inasprire la vigilanza sui redattori. Invero, nonostante i mass media abbiano guardato principalmente dalla prospettiva appena esposta la legge al vaglio del Parlamento – peraltro talvolta abusando con la declamazione dell’art. 21 della Costituzione, assumendolo violato nella propria ratio – la vera riforma, a nostro avviso, inciderebbe principalmente sui poteri conoscitivi dei magistrati, introducendo una serie di balzelli che inevitabilmente porterebbero a rivedere una buona parte delle strategie inquirenti fino ad oggi utilizzate. Da questo punto di vista, inoltre, il Pubblico Ministero non potrà più rilasciare dichiarazioni sull’indagine che sta svolgendo, mentre è stata edulcorata la norma sul giornalismo d’assalto che nella sua attuale formulazione (cosiddetta "salva Iene", dal celebre programma televisivo) consentirebbe ai giornalisti (e solo a loro) professionisti e pubblicisti di riprendere o registrare una conversazione all’insaputa dell’interlocutore. Il materiale così ottenuto sarebbe utilizzabile, comunque, esclusivamente per finalità di cronaca, (parrebbe) senza nulla togliere alla legittima apprensione della notizia di reato da parte dell’autorità giudiziaria (www.adnkronos.com, 30/05/2010). Venendo, poi, alle questioni strettamente legate al titolo ed al leit motiv della legge, lo strumento delle intercettazioni sarebbe consentito solo in presenza di "gravi indizi di reato", formula che corregge quella contenuta nel testo licenziato dalla Camera dove si parlava di "gravi indizi di colpevolezza" e che riprende quella già prevista dalla normativa in vigore (www.adnkronos.com, cit.). I magistrati, in questo caso, dovrebbero farsi autorizzare non più dal G.I.P., ma da un collegio di tre giudici con la limitazione temporale dell’attività consequenziale fissato in 30 giorni, prorogabili solo per tre volte di 15 giorni se in presenza di comprovate ragioni investigative dovute essenzialmente alla imminenza della consumazione di un reato. Qui sembrerebbe risiedere il vero bubbone della legge che dovrebbe far rabbrividire al cospetto della più volte propinata ideologia di stato mammone che, anziché educare i propri funzionari ad un più oculato e mirato utilizzo dello strumento, aprioristicamente porrebbe una asettica regolamentazione stridente con la tempistica e le esigenze degli investigatori impegnati, ad esempio ma non solo, nella lotta alla criminalità organizzata e nella repressione dei reati di maggiore riprovevolezza sociale. E’ noto che i successi messi a segno in questi campi hanno richiesto mesi e mesi di pazienti ascolti. Proseguendo, la norma che se approvata farebbe certamente segnare il passo alla tanto decantata trasparenza nei rapporti interpersonali che per "motivi di servizio" i politici tengono – ad esempio – con il mondo dell’economia, imporrebbe al magistrato che incidentalmente si imbattesse in una intercettazione a carico di un soggetto terzo a colloquio con un parlamentare, di chiedere alla Camera di appartenenza l’autorizzazione all’utilizzo della registrazione nell’ambito del procedimento che si trovasse ad istruire. Questo è un evidente passo indietro rispetto a quella dignitosa conquista degli anni Novanta che ha portato alla revisione delle guarentigie concesse ai membri dell’Emiciclo romano con la (timida) riforma dell’art. 68 della Costituzione sull’immunità parlamentare. Senz’altro non concederebbe niente alla ventata di legalità oggi tanto invocata da chiunque si appresti a commentare anche le ultime vicende giudiziarie che hanno interessato alti esponenti di Governo. Medesima accortezza, poi, anche nel caso in cui le conversazioni carpiscano le "confidenze" di un prelato; in questo caso, sarebbe il Vaticano a doversi pronunciare (la Santa Sede ringrazia).Insomma, anche da queste poche righe si comprende l’enorme pasticcio sortito dalle elucubrazioni dei nostri impegnatissimi politici. Ciò che maggiormente spaventa, a nostro avviso, è lo scarso coraggio e la poca preparazione con cui si affrontano questioni così delicate. Il problema indubbiamente è concreto, delle intercettazioni si è senz’altro abusato in molti casi e la cronaca giudiziaria ha innegabilmente stretto rapporti fin troppo avidi con i Palazzi dove si amministra la giustizia; però, credere di poter risolvere tali questioni restringendo l’uso degli strumenti d’indagine che la tecnologia mette a disposizione della magistratura e punendo per tutti i giornalisti, ci sembra un punto di vista tanto bigotto quanto presuntuoso. Si tralascia il fatto che la stessa Corte di Giustizia di Strasburgo – se ne è parlato più volte – assume il ruolo della stampa alla stregua di controllore sull’operato dei politici e degli amministratori della cosa pubblica, introducendo principi giurisprudenziali e di diritto (con i quali tutti gli stati membri devono fare i conti) in base ai quali al giornalista non può essere fatto pagare lo scotto di svolgere il proprio primordiale ruolo di diffondere informazioni e notizie d’interesse pubblico. Se queste, poi, fugano in momenti in cui l’ordinamento ritiene che debbano essere coperte da segreto, si deve punire (anche esemplarmente) i veri responsabili della divulgazione e non i "mezzi" che le veicolano. Il topolino che è stato partorito dalla montagna è proprio questo: si è creato un gran baccano intorno ad una riforma che potrebbe fregiarsi di questo titolo solo se riuscisse ad individuare ed affrontare efficacemente il problema colpendo i veri responsabili della lesione dei beni giuridici in gioco (primo tra tutti il diritto alla riservatezza), cioè gli eterni ignoti che sistematicamente violano i fascicoli d’indagine. In questo campo, forse, tanto si potrebbe se ci si limitasse ad una seria sperimentazione che consentisse una volta per tutte di rispolverare ed applicare norme già presenti nel nostro ordinamento. Qui, forse, il coraggio più che i politici ce lo dovrebbero mettere i giudici. (S.C. per NL)