Dalla Corte (di Strasburgo) dei diritti dell’uomo parte un forte monito al Parlamento italiano chiamato a decidere sul “ddl Mastella” sulla pubblicazione delle intercettazioni

Politici meno protetti rispetto all’uomo della strada. Il diritto dei cittadini di conoscere i fatti prevale sempre sulla segretezza delle carte processuali


dalla newsletter del sito Franco Abruzzo.it

IL SOLE 24 ORE del 21 giugno 2007

Corte Ue. Prevale l’informazione – Libertà di stampa più forte dell’istruttoria

SEGRETO LIMITATO: due giornalisti francesi avevano rivelato il sistema di intercettazioni illegali durante la presidenza di Mitterand

di Marina Castellaneta

Il diritto della stampa di informare su indagini in corso e quello del pubblico di ricevere notizie su inchieste scottanti prevalgono sulle esigenze di segretezza. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti dell’uomo che, nella sentenza del 7 giugno scorso, ha condannato la Francia per violazione della libertà di espressione (ricorso n. 1914/02). Questo perché i tribunali interni avevano condannato due giornalisti che avevano pubblicato un libro sul sistema di intercettazioni illegali attuato durante la Presidenza Mitterand.

Nell’opera, oltre che stralci di dichiarazioni al giudice istruttore e brogliacci delle intercettazioni, era contenuto l’elenco delle persone sottoposte ai controlli telefonici. Se i giudici francesi hanno fatto pendere l’ago della bilancia verso la tutela del segreto istruttorio, punendo i giornalisti, la Corte europea ha invece rafforzato il ruolo della stampa nella diffusione di fatti scottanti, soprattutto quando coinvolgono politici. In questi casi, i limiti di critica ammissibili sono più ampi, perché sono interessate persone che si espongono volontariamente a un controllo sia da parte dei giornalisti, che della collettività.

La Corte europea ha ammesso che i due autori avevano violato le norme sul segreto istruttorio, ma ha riconosciuto prevalente l’esigenza del pubblico di essere informato sul procedimento giudiziario in corso e sui fatti oggetto del libro, al quale erano allegati alcuni verbali di intercettazioni.

È legittimo – secondo i giudici europei – accordare una protezione particolare al segreto istruttorio, sia per assicurare la buona amministrazione della giustizia, sia per garantire il diritto alla tutela della presunzione d’innocenza delle persone oggetto d’indagine. Ma su queste esigenze prevale il diritto di informare, soprattutto quando si tratta di fatti che hanno raggiunto una certa notorietà tra la collettività. Non solo. La Corte europea ha ribaltato l’onere della prova: non tocca ai giornalisti dimostrare che non hanno violato il segreto istruttorio, ma spetta alle autorità nazionali dimostrare in quale modo «la divulgazione di informazioni confidenziali può avere un’influenza negativa sulla presunzione di innocenza» di un indagato. In caso contrario, la protezione delle informazioni coperte da segreto non «è un imperativo preponderante». Ciò che conta è che i giornalisti agiscano in buona fede, fornendo dati esatti e informazioni precise e autentiche nel rispetto delle regole deontologiche della professione.

Una bocciatura anche per le pene disposte dai tribunali nazionali. Secondo la Corte europea, infatti, la previsione di un’ammenda e l’affermazione della responsabilità civile dei giornalisti possono avere un effetto dissuasivo nell’esercizio di questa libertà, effetto che non viene meno anche nel caso di ammende relativamente moderate.

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Testo anche in http://www.odg.it; in www.odg.mi.it e in www.francoabruzzo.it

Vademecum per il cronista

Davanti ai magistrati delle Procure, i giornalisti (incriminati per violazione del segreto istruttorio o sottoposti a perquisizione dal Pm a caccia delle prove sulle fonti) devono invocare l’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo nelle interpretazioni vincolanti date dalle sentenze Goodwin e Roemen.

Segreto professionale dei giornalisti: davanti ai Pm e ai giudici invocare con forza le sentenze della Corte di Strasburgo

I giudici nazionali sono tenuti ad applicare le norme della Convenzione secondo i principi ermeneutici espressi dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo.

di Franco Abruzzo – consigliere dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia

Il segreto professionale dei giornalisti è salvaguardato in maniera efficace soltanto dall’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo e dalle sentenze Goodwin e Roemen della Corte di Strasburgo sull’argomento. L’articolo 10 (Libertà di espressione), – ripetendo le parole della Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo del 1948 e del Patto sui diritti politici di New York del 1966 -, recita: ” Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiere”. La libertà di ricevere le informazioni comporta, come ha scritto la Corte dei diritti dell’Uomo di Strasburgo, la protezione “assoluta” delle fonti dei giornalisti.

La Convenzione europea dei diritti dell’Uomo (legge 4 agosto 1955 n. 848) con l’articolo 10, come riferito, tutela espressamente le fonti dei giornalisti, stabilendo il diritto a “ricevere” notizie. Lo ha spiegato la Corte dei diritti dell’Uomo di Strasburgo con la sentenza che ha al centro il caso del giornalista inglese William Goodwin (Corte europea diritti dell’Uomo 27 marzo 1996, Goodwin c. Regno Unito in https://www.odg.mi.it/docview.asp?DID=179). La Corte, muovendo dal principio che ad ogni giornalista deve essere riconosciuto il diritto di ricercare le notizie, ha ritenuto che “di tale diritto fosse logico e conseguente corollario anche il diritto alla protezione delle fonti giornalistiche, fondando tale assunto sul presupposto che l’assenza di tale protezione potrebbe dissuadere le fonti non uffici ali dal fornire notizie importanti al giornalista, con la conseguenza che questi correrebbe il rischio di rimanere del tutto ignaro di informazioni che potrebbero rivestire un interesse generale per la collettività”.

L’ordinamento europeo impedisce ai giudici nazionali di ordinare perquisizioni negli uffici e nelle abitazioni dei giornalisti nonché nelle “dimore” dei loro avvocati a caccia di prove sulle fonti confidenziali dei cronisti: “La libertà d’espressione costituisce uno dei fondamenti essenziali di una società democratica, e le garanzie da concedere alla stampa rivestono un’importanza particolare. La protezione delle fonti giornalistiche è uno dei pilastri della libertà di stampa. L’assenza di una tale prot ezione potrebbe dissuadere le fonti giornalistiche dall’aiutare la stampa a informare il pubblico su questioni d’interesse generale. Di conseguenza, la stampa potrebbe essere meno in grado di svolgere il suo ruolo indispensabile di “cane da guardia” e il suo atteggiamento nel fornire informazioni precise e affidabili potrebbe risultare ridotto”. Questi sono i principi (vincolanti anche per i nostri magistrati) sanciti nella sentenza Roemen 25 febbraio 2003 (Procedimento n. 51772/99) della quarta sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo (il testo è in https://www.odg.mi.it/docview.asp?DID=554).

Va detto anche che gli articoli della Convenzione operano e incidono unitamente alle interpretazioni che la Corte di Strasburgo ne dà attraverso le sentenze. Le sentenze formano quel diritto vivente al quale i giudici e i magistrati (dell’Ufficio del Pm) dei vari Stati contraenti sono chiamati ad adeguarsi sul modello della giustizia inglese. «La portata e il significato effettivo delle disposizioni della Convenzione e dei suoi protocolli non possono essere compresi adeguatamente senza far riferimento alla giurisprudenza. La giurisprudenza diviene dunque, come la Corte stessa ha precisato nel caso Irlanda contro Regno Unito (sentenza 18 gennaio 1978, serie A n. 25, § 154) fonte di parametri interpretativi che oltrepassano spesso i limiti del caso concreto e assurgono a criteri di valutazione del rispetto, in seno ai vari sistemi giuridici, degli obblighi derivanti dalla Convenzione..i criteri che hanno guidato la Corte in un dato caso possono trovare e hanno trovato applicazione, mutatis mutandis, anche in casi analoghi riguardanti altri Stati» (Antonio Bultrini, La Convenzione europea dei diritti dell’Uomo: considerazioni introduttive, in Il Corriere giuridico, Ipsoa, n. 5/1999, pagina 650). D’altra parte, dice l’articolo 53 della Convenzione, «nessuna delle disposizioni della presente Convenzione può essere interpretata in modo da limitare o pregiudicare i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali che possano essere riconosciuti in base alle leggi di ogni Paese contraente o in base ad ogni altro accordo al quale tale Parte contraente partecipi». Vale conseguentemente, con valore vincolante, l’interpretazione che della Convenzione dà esclusivamente la Corte europea di Strasburgo. Non a caso il Consiglio d’Europa, nella raccomandazione R(2000)7 sulla tutela delle fonti dei giornalisti, ha scritto testualmente: «L’articolo 10 della Convenzione, così come interpretato dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo, s’impone a tutti gli Stati contraenti». Su questa linea si muove il principio affermato il 27 febbraio 2001 dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo: “I giudici nazionali devono applicare le norme della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo secondo i principi ermeneutici espressi nella giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo” (in Fisco, 2001, 4684).

La Convenzione europea dei diritti dell’Uomo e le sentenze di Strasburgo rendono forte il lavoro del cronista. Le vicende Goodwin e Roemen sono episodi che assumono valore strategico. Quelle sentenze possono essere “usate”, quando i giudici nazionali mettono sotto inchiesta, sbagliando, i giornalisti, che si avvalgono del segreto professionale. Davanti ai magistrati delle Procure, i giornalisti (incriminati per violazione del segreto istruttorio o sottoposti a perquisizione dal Pm a caccia delle prove sulle fonti) devono invocare l’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo nelle interpretazioni vincolanti date dalle sen tenze Goodwin e Roemen. I giornalisti devono rifiutarsi di rispondere ai giudici in tema di segreto professionale, invocando, con le norme nazionali (articolo 2 della legge professionale n. 69/1963 e articolo 138 del Dlgs 196/2003 sulla privacy), la protezione dell’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo nell’interpretazione che la Corte di Strasburgo ne ha dato con le sentenze Goodwin e Roemen.

Questa linea è l’unica possibile anche per evitare di finire sulla graticola dell’incriminazione per “violazione del segreto d’ufficio” (art. 326 Cp) in concorso con pubblici ufficiali (per lo più ignoti), cioè con coloro che, – magistrati, cancellieri o ufficiali di polizia giudiziaria -, hanno “spifferato” le notizie ai cronisti. In effetti l’eventuale responsabilità, collegata alla fuga di notizie, grava solo sul pubblico ufficiale che diffonde la notizia coperta da vincoli di segretezza e non sul giornalista che la riceve e che, nell’ambito dell’esercizio del diritto-dovere di cronaca, la divulga. Va affermato il principio secondo il quale il giornalista, che riceva una notizia coperta da segreto, può pubblicarla senza incorrere nel reato previsto dall’articolo 326 Cp. E’ palese la differenza con il reato di corruzione, che colpisce sia il corrotto sia il corruttore. L’articolo 326 Cp, invece, punisce solo chi (pubblico ufficiale) viola il segreto e non chi (giornalista) riceve l’informazione e la fa circolare. Ferma restando, ad ogni modo, la prerogativa del giornalista di non rivelare l’identità delle proprie fonti. Il giornalista, che svela le sue fonti, rischia il procedimento disciplinare al quale non può, comunque, sfuggire per l’evidente violazione deontologica. Una lettura ragionevole dell’articolo 326 Cp evita l’incriminazione (assurda) del giornalista per concorso nel reato (con il pubblico ufficiale…loquace) e le perquisizioni, arma ormai spuntata dopo la sentenza Roemen della Corte di Strasburgo..

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