“Provate a immaginare: siete un giornalista in un piccolo quotidiano. Al direttore non importa proprio nulla se la vostra fonte ha staccato il telefono e non richiama: vuole il pezzo sulla scrivania per le 10 di sera. Anche oggi non riuscirete a salutare i vostri figli prima che vadano a dormire perché l’incontro a Washington di cui dovete scrivere sta andando avanti ben oltre il previsto. Avete passato il pomeriggio a schivare le proteste telefoniche di personaggi che non sono d’accordo su diversi passaggi di un articolo che avete pubblicato oggi. Senza contare le centinaia di maniaci che vi chiamano ogni tre minuti per proporvi storie improbabili che non interessano a nessuno. Ma, e qui viene il peggio, fate tutto questo con la consapevolezza di essere sottopagati. Ecco perché non avete più voglia di fare i giornalisti”. Questo impietoso quanto veritiero ritratto della professione giornalistica è opera di Scott Reinardy, docente di giornalismo della Ball State University, per diciotto anni cronista per diverse testate, specie nel settore sportivo. Reinardy ha condotto un’indagine su un campione di 770 giornalisti americani e questo ritratto ne è la premessa. La maggior parte di questi sarebbe stanca della propria professione, sarebbero perennemente con l’occhio puntato su altri settori, in attesa di trovare miglior sorte altrove. Il mito della professione giornalistica non esiste più, quindi. Ma non solo: secondo il Center for desease control, ente statunitense che si occupa di malattie sul lavoro, il mestiere giornalistico sarebbe al settimo posto nella speciale classifica dei lavori più stressanti ed usuranti. Se, poi, vi si aggiunge il fattore-remunerazione, ecco che si configura il ritratto tracciato da Reinardy. Secondo la sua ricerca, il 25% del totale dei giornalisti vorrebbe cambiare mestiere; il 36,2% ha risposto a questa domanda con uno scoraggiato “non so”. Se, poi, si restringe al campo alla fascia d’età al di sotto dei 35 anni, il numero degli insoddisfatti aumenta ulteriormente: il 31% vorrebbe abbandonare la redazione, il 43% si trincera ancora dietro un enigmatico “non so”. I fattori che maggiormente contribuiscono a questo dato sono lo stress, il cinismo che accompagna ogni aspetto della vita da redazione e, ovviamente, lo stipendio troppo basso. “Credo che gli editori dovrebbero tener conto di questi risultati – continua il docente – scarsa soddisfazione porta a scarsa qualità del prodotto in tutti i settori, giornalismo non escluso”. E se un tempo si diceva che fare il giornalista era sempre meglio che lavorare, adesso questa massima farebbe storcere il naso alla miriade di cronisti che alla vita da giornalista d’assalto preferirebbero un lavoro ben più tranquillo, magari con orari fissi e stipendi un po’ più alti. Se poi quest’indagine portata avanti dal professor Reindardy fosse stata condotta in Italia, con ogni probabilità, i dati riguardo il livello di soddisfazione sarebbero stati ancor più raccapriccianti. (Giuseppe Colucci per NL)