Semaforo verde ai controlli anti-evasione compiuti attraverso l’esame della corrispondenza tra professionista e cliente ai fini di stabilire l’entità del giro d’affari dello studio.
Le Sezioni Unite del Supremo Collegio, infatti, con la sentenza n. 11082 del 7 maggio 2010, autorizzano il nucleo di Polizia Tributaria delle Fiamme Gialle a passare al setaccio personal computer e archivi cartacei ed elettronici di questi soggetti al fine di reprimere eventuali violazioni della normativa tributaria. Il caso all’esame di Piazza Cavour, trae origine dall’eccezione inerente il segreto professionale avanzata da uno studio legale e tributario milanese, opposto agli agenti del fisco. Segnatamente, il rappresentante dello studio meneghino contestava la legittimità di controlli così invasivi, per mezzo dei quali – indirettamente – si sarebbe violata la privacy dei clienti alla ricerca di attività professionali fiscalmente rilavanti. Ciononostante, la Cassazione formulava il principio di diritto secondo il quale il segreto professionale è un istituto a tutela del diritto di difesa dei cittadini e non può essere utilizzato alla stregua di privilegio per proteggere gli interessi soggettivi dei professionisti. In questo caso, la norma di riferimento è contenuta nell’art. 52 del D.P.R. 633/1972 e s.m.i., la quale consente al comma 1 che gli uffici I.V.A. possano disporre “(…) l’accesso d’impiegati dell’Amministrazione finanziaria nei locali destinati all’esercizio d’attività commerciali, agricole, artistiche o professionali per procedere ad ispezioni documentali, verificazioni e ricerche e ad ogni altra rilevazione ritenuta utile per l’accertamento dell’imposta e per la repressione dell’evasione e delle altre violazioni.”, seppur – nella fattispecie che ci occupa – con la cautela espressa al successivo comma 3, a mente del quale “E’ in ogni caso necessaria l’autorizzazione del procuratore della Repubblica o dell’autorità giudiziaria più vicina per procedere durante l’accesso a perquisizioni personali e all’apertura coattiva di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili, ripostigli e simili e per l’esame di documenti e la richiesta di notizie relativamente ai quali è eccepito il segreto professionale ferma restando la norma di cui all’ articolo 103 del codice di procedura penale”. Ritornando al caso in esame, lo studio interessato dal controllo proponeva ricorso al T.A.R. censurando il provvedimento amministrativo emesso dal Procuratore della Repubblica che autorizzava la raccolta di quanti più elementi possibili al fine di individuare circostanze utili all’accertamento, definendolo “privo di motivazione, generico e sproporzionato”. La questione finiva, a distanza di tre anni dall’originario atto d’impulso, innanzi al Giudice di Legittimità, rilevato che il Tribunale Amministrativo in primo grado ed il Consiglio di Stato successivamente, dichiaravano il ricorso inammissibile statuendo la competenza della Commissione Tributaria in qualità di giudice speciale. Il regolamento di competenza così delineato veniva confermato anche dagli Ermellini che – nel merito della questione inerente la legittimità dell’ispezione con annesso sequestro di materiali probatori – fornivano interessanti spunti di riflessione. Segnatamente, vale ad una qualificazione del segreto professionale la circostanza in base alla quale questo possa essere opposto solo dal contribuente (o, comunque, dal soggetto che per il compito che si trova a svolgere ne è depositario) in relazione alla propria attività e non dal professionista-contribuente la cui attività è sottoposta al vaglio – nelle forme e per le finalità del citato art. 52, comma 3 – con lo scopo di verificare il corretto assolvimento dell’obbligazione tributaria. Pertanto, nelle parole del Collegio adito, “(…) la necessità, od anche la (mera) opportunità, di sottoporre a controllo, ai fini fiscali, pure gli atti secretati dal professionista-contribuente, discende dalla ovvia possibilità, offerta da tale esame, di riscontrare l’eventuale esistenza di attività professionali fiscalmente rilevanti non dichiarate o dichiarate in misura minore e/o comunque non risultanti dalle scritture contabili e/o dagli atti non secretati(…)” (Cfr. Cass., SS.UU., sent. n. 11082/2010). Da ciò la Corte faceva discendere che le notizie afferenti le attività poste in essere dai clienti del professionista possono essere utilizzate ai fini di un’eventuale indagine da parte dell’Amministrazione Finanziaria “(…) se rivelatrici di fonte reddituale non (o diversamente) dichiarata”(Cfr. Cass. cit.). Nondimeno, a sostegno del convincimento di Piazza Cavour, veniva richiamato il canone già elaborato dalla giurisprudenza costituzionale – estensibile a chiunque eserciti una professione intellettuale protetta – in base al quale, come schematicamente accennato sopra, “(…) la protezione del segreto professionale, riferita a quanto conosciuto in ragione dell’attività professionale svolta da chi sia legittimato a compiere atti propri di tale professione, assume carattere oggettivo, essendo destinata a tutelare le attività inerenti la difesa e non l’interesse soggettivo del professionista” (Cfr. C. Cost., sent. n. 87/1997). Immediate sono giunte le reazioni delle categorie professionali interessate (www.ateneoweb.com, 11/05/2010), le quali hanno valutato con estrema perplessità l’ingerenza dello Stato negli archivi degli studi professionali – soprattutto se non confortata dai prodromi di una violazione – con il pericolo che le informazioni così raccolte possano essere utilizzate contro gli stessi clienti per future verifiche. Massima collaborazione, comunque, viene espressa dai rappresentanti di categoria intervenuti ai fini di far emergere economie sommerse, ma pare di capire con una netta chiusura nei confronti di un’amministrazione affetta da indiscriminato voyeurismo. (S.C. per NL)