Convegno di Bema, 7 luglio 2007 – Società, Informazione, Giustizia – Violenza negli stadi: la Giustizia

La relazione di Piero Calabrò al Convegno di Bema (Violenza negli stadi: la Giustizia e il ruolo dell’Informazione)


dalla newsletter del sito Franco Abruzzo.it

INDICE
1. Premessa. I fatti di Catania.
2.I nostri mass media e il richiamo all’esempio di altri Paesi.
3. L’informazione sull’operato della Giustizia.
I decreti Pisanu e Amato. La disinformazione sull’operato della Giustizia
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1. Premessa. I fatti di Catania.
I luttuosi fatti di Catania hanno riproposto, in modo tragicamente attuale, la discussa problematica attinente le ripetute manifestazioni di violenza in occasione degli eventi sportivi, con particolare riferimento al gioco del calcio.
La questione, ad onor del vero, è tristemente datata e, pertanto, sorge il dubbio che solamente la morte dell’Ispettore Capo di Polizia Filippo Raciti abbia imposto una seria riflessione al mondo dei mass media ed un pronto intervento agli organi competenti.
A mio parere, solo le Autorità dello Stato, pur con tutte le contraddizioni ed i limiti riconducibili ad ogni iniziativa fondata sull’emergenza, hanno saputo dimostrare la volontà di affrontare il problema con realismo e determinazione: volontà che, invece, è apparsa molto contraddittoriamente presente negli altri organi preposti a gestire il fenomeno sportivo (in particolare, nella F.I.G.C. e nella Lega Calcio Professionistico) e che, dopo l’iniziale indigestione di articoli e di servizi, non sembra oggi adeguatamente supportata dal mondo dell’informazione.
Nella speranza che, almeno allo scopo di rendere onore a chi ha perso la vita per spirito di servizio, il futuro veda tutte le componenti (istituzionali, sportive, giornalistiche) seriamente e fattivamente impegnate nella medesima direzione, credo sia opportuno fare il punto della situazione.
Non potrà, ovviamente, essere un bilancio definitivo, anche in considerazione del fatto che, pur avendo il Parlamento provveduto alla conversione in Legge del D.L. 8.2.2007 n.8, ulteriori e non meno importanti interventi si rendono necessari.
Ogni intervento legislativo e giudiziario, in chiave preventiva e/o repressiva, non può però produrre risultati profondi e decisivi, senza l’essenziale apporto del mondo dell’informazione.
L’esplorazione di quest’ultimo versante credo sia rilevante ed opportuna: le leggi, l’operato della magistratura e delle forze dell’ordine, in altre parole la prevenzione e la repressione dei fenomeni delinquenziali di massa, spesso necessitano di un adeguato supporto conoscitivo ed informativo, che solo il mondo del libero giornalismo può fornire.
Anche la più aspra attività di critica dell’operato delle istituzioni non può andare disgiunta da una ampia e corretta informazione su tutti gli aspetti delle problematiche affrontate: di contro, l’assenza di informazione o la superficialità nella diffusione delle notizie si riverberano negativamente su tutte le componenti del campo avverso ai violenti da stadio.
Questa breve relazione vuole essere un modesto contributo alla conoscenza della materia, anche attraverso l’individuazione di esempi, non sempre positivi, dell’incrocio tra l’azione delle Istituzioni e l’attività degli organi d’informazione.
2.I nostri mass media e il richiamo all’esempio di altri Paesi
Nell’immediatezza del “dopo Catania”, ci si è chiesti se la violenza negli stadi, almeno agli assurdi livelli ormai raggiunti nel nostro Paese, sia un problema comune ad altre Nazioni e, soprattutto, se ed in quale modo sia stata da altri affrontata.
Ripetuti riferimenti sono stati fatti al c.d. “modello inglese”, atteso che, come è noto, le disastrose e cruente performances degli hooligans hanno indotto le Autorità del Regno Unito ad affrontare la questione con interventi assai drastici, non solo di carattere repressivo.
Nell’invocare il modello britannico, peraltro, i nostri mass media hanno adottato metodi informativi sovente superficiali o non sufficientemente idonei a tradurne il significato con specifico riferimento alla situazione italiana, nei suoi peculiari aspetti sociali ed ordinamentali.
Il Legislatore Inglese, con una serie di provvedimenti normativi (ultimo, il“Football Desorder Act” approvato il 28.7.2000), ha introdotto non solo decise regole sanzionatorie, ma anche notevoli prescrizioni riguardanti i Clubs calcistici, favorendo (anche attraverso i finanziamenti pubblici) la proprietà privata degli stadi ed imponendo misure preventive di eccezionale portata.
Dal punto di vista sanzionatorio, può semplicemente affermarsi che qualsivoglia comportamento deviante all’interno dello stadio è considerato reato (l’introduzione di oggetti atti ad offendere; la declamazione di slogans violenti o razzisti; l’abuso di sostanze alcoliche, anche sugli autobus che conducono all’impianto sportivo; l’invasione di campo; etc.).
Non solo, ma anche comportamenti che nei nostri stadi appaiono del tutto normali (quali: alzarsi troppo dal proprio posto a sedere; eccedere con i gesti o con le urla) legittimano gli addetti alla sicurezza a procedere alla immediata espulsione dall’impianto sportivo.
Quanto a questi ultimi (i c.d. “stewards”), la loro dipendenza dai clubs è rafforzata dai poteri di intervento loro assegnati dalla legge, che riserva alle Forze di Polizia la tutela dell’ordine e della pubblica sicurezza solo al di fuori degli stadi.
Il lettore italiano, di fronte a queste esemplificazioni, è stato quasi inevitabilmente condotto all’indignazione nei confronti delle nostre Istituzioni ed alla conseguente richiesta, pura e semplice, di una rapida adozione delle medesime misure anche nel nostro Paese.
Sarebbe stato più corretto, evidentemente, informare quel lettore:
-che molte delle anzidette prescrizioni erano già presenti nella nostra legislazione (ad esempio, le sanzioni insite nel c.d. D.A.S.P.O. e nel c.d. “Decreto Pisanu”);
-che molti altri divieti, già accompagnati da non indifferenti sanzioni, sono stati semplicemente aggravati nell’immediatezza del “dopo Catania”;
-che, in relazione ad altri aspetti, il nostro sistema costituzionale è ben diverso da quello inglese, in quanto le restrizioni alla libertà dei cittadini sono, nel nostro Paese, opportunamente del tutto assoggettate alla c.d. “riserva di legge” ed ai precisi limiti dettati dalla stessa Costituzione.
Un esempio su tutti aiuterà a ben comprendere questa pacata riflessione.
Nel sistema britannico, l’eventuale condanna penale per un reato commesso dagli hooligans può essere fatta oggetto di appello da parte dell’imputato, ma la reiezione del gravame comporterà automaticamente il raddoppio della pena inflitta in primo grado.
Nel nostro sistema, una simile previsione contrasterebbe (in assenza di appello da parte del P.M.) con il divieto della reformatio in pejus e con il diritto dell’imputato al gravame sulle decisioni di condanna che lo riguardano.
Non solo questo non è stato fatto presente ai lettori, ma neppure è stato rammentato che, in Italia, solamente l’intervento della Corte Costituzionale ha impedito alla c.d. Legge Pecorella di introdurre il principio opposto (vale a dire, l’impossibilità per il P.M. di appellare le sentenze di assoluzione).
Analoghe considerazioni possono essere svolte in relazione al “modello Olandese”, richiamato da qualche organo di stampa.
In Olanda, per fronteggiare episodi violenti che hanno condotto all’esclusione del Feyenoord dalla coppa Uefa a causa degli incidenti verificatisi durante l’incontro con il Nancy del novembre 2006, alcuni clubs hanno dato inizio ad un peculiare esperimento: è stata, infatti, creata una banca-dati con le impronte digitali date dai tifosi all’ingresso dello stadio (con la possibilità di vietare l’accesso a coloro che offrano un rifiuto o comunque di distinguere i potenziali virtuosi dai potenziali violenti).
Forse sarebbe stato opportuno accompagnare la giusta informazione su tale esperimento, con la non meno doverosa valutazione circa il contrasto di una simile iniziativa con le nostre disposizioni in tema di libertà individuale e di tutela della privacy.
Un secondo esempio consentirà ad ognuno di noi di trarre qualche ulteriore conclusione.
Come si è detto, il lessico del tifoso da stadio si è arricchito, nell’ultimo periodo, di una espressione magica e molto british : ribadita ad ogni piè sospinto da stampa e televisione, la parola steward si è trasformata nella panacea di tutti i mali del calcio nostrano, quasi che la massiccia presenza degli addetti privati alla sicurezza possa dipendere dalla mera volontà delle Istituzioni, sino ad oggi distratte ed incapaci di imitare rapidamente il modello inglese.
Peccato che sia mancata una adeguata informazione proprio sulle modalità di funzionamento di questo importante aspetto del sistema britannico di controllo del calcio,
Sarebbe stato, in tal caso, assai semplice portare a conoscenza di tutti alcune delle previsioni normative inglesi, che proprio il nostro mondo sportivo (informazione compresa) ancora oggi di fatto non vuole accettare.
Ad esempio, essendo in Inghilterra prevista una precisa percentuale di stewards in rapporto alla capienza dello stadio, qualora il club interessato non sia in grado di garantire la presenza del numero minimo di addetti imposto dalla legge, si troverà di fronte a due sole possibilità:
-ridurre la capienza fino al numero di spettatori corrispondente agli stewards in servizio;
-richiedere l’intervento delle Forze di Polizia all’interno dello stadio, però pagando allo Stato il relativo costo.
Da noi, ogni qualvolta l’Osservatorio per la sicurezza istituito presso il Viminale ha deliberato, per ovvie ragioni di tutela dell’ordine pubblico, di inibire o di ridurre la presenza degli spettatori negli stadi ritenuti “a rischio”, gli organi di informazione hanno rapidamente dimenticato le rigide e non derogabili previsioni britanniche, sposando sovente le ragioni e le lamentele dei clubs e della Lega Italiana Gioco Calcio, che invocavano la fine di ogni limitazione.
La “disinformazione” sull’argomento ha, peraltro, radici ben più lontane.
A seguito di ripetuti episodi di violenza verificatisi nella stagione calcistica 2004/2005, nella estate successiva vennero approvate con decretazione d’urgenza alcune norme innovative, in parte ancora oggi in vigore.
La legge di conversione (Legge n.210/2005) limitò in parte l’impianto repressivo preordinato dal c.d.“Decreto Pisanu”(D.L. n.162/2005), nella indifferenza pressoché totale dei nostri mass media (probabilmente a causa dell’assenza di eventi luttuosi da cavalcare).
Ciò nonostante, in estrema sintesi già prevedeva:
-l’estensione del divieto di accesso a manifestazioni sportive (D.A.S.P.O.) per chi abbia commesso atti di violenza in occasione di eventi svoltisi anche all’estero;
-l’inasprimento delle sanzioni se dai fatti violenti sia derivato un danno alle persone;
-la reclusione (da un mese a tre anni) se la conseguenza delle violenze sia stato il mancato regolare inizio, la sospensione, l’interruzione o la cancellazione della manifestazione;
-l’equiparazione degli stewards ai pubblici ufficiali in relazione ai reati di violenza e resistenza di cui agli artt.336 e 337 Codice Penale;
-la previsione di una capienza minima pari a 10.000 spettatori per gli impianti destinati alla serie A;
-l’introduzione di severe sanzioni per la vendita di biglietti al di fuori dei circuiti ufficiali;
-la regolamentazione dell’accesso e della permanenza negli stadi;
-l’istituzione, presso il Ministero dell’Interno, dell’Osservatorio Nazionale sulle manifestazioni sportive (con compiti di monitoraggio dei fenomeni di violenza e di promozione dei più opportuni interventi di contrasto).
Come è purtroppo noto, molte delle anzidette previsioni sono rimaste sostanzialmente inapplicate, così come quelle in materia di videosorveglianza analiticamente dettate dal Ministero dell’Interno con D.M. del 6.6.2005 (che prevede, per gli impianti con capienza superiore a 10.000 spettatori, la installazione di sistemi di ripresa a circuito chiuso all’interno degli stadi e nelle aree circostanti, la predisposizione di un apparato di regia ed una sala di controllo, la dotazioni di strumentazioni varie e sofisticate, etc.).
Si è, quindi, giunti quasi per forza di inerzia alla stagione calcistica 2006/2007, attraverso la ripetuta concessione di deroghe per l’adeguamento degli impianti e l’assoluta mancanza di collaborazione, da parte dei clubs professionistici e delle loro rappresentanze istituzionali (F.I.G.C. e Lega Calcio), in tema di prevenzione, sicurezza, rapporti con le associazioni dei tifosi.
Di tutto questo, prima dei “fatti di Catania” non risultavano particolarmente edotti e consapevoli i nostri organi di informazione.
Il Decreto Legge 8.2.2007 n.8 (“Decreto Amato”), convertito nella Legge 4.4.2007 n.41, ha stabilito il principio (opposto, rispetto alla prassi delle mille proroghe) secondo il quale, fino al momento della “attuazione degli interventi strutturali ed organizzativi” necessari ai fini della sicurezza degli impianti (già previsti dalla Legge 22.4.2003 n.88) le partite di calcio“negli stadi non a norma sono svolte in assenza di pubblico” (il D.L. addirittura recitava: “a porte chiuse”).
Dunque, il passaggio dalla deroga come regola, alla chiusura come ordinaria determinazione, appariva in tutta la sua forza ed evidenza: non a caso, in ossequio alla eccezione riservata agli abbonati per quelle società che si erano dotate almeno di alcuni essenziali strumenti di sicurezza (tornelli ed aree di pre-selezione), si è verificato il miracoloso evento di opere realizzate nello spazio di pochi giorni, laddove non erano bastati, nel passato, mesi ed anni.
Giornali e televisione hanno giustamente dato rilievo a queste incredibili performances dei nostri clubs calcistici: non è però irriverente domandarsi di cosa si occupavano in precedenza, se hanno mai denunziato l’inerzia e la latitanza delle società professionistiche e delle stesse Istituzioni, se non si sono mai posti il problema dell’imitazione ex ante del modello inglese (e non, tragicamente e in ogni caso tardivamente, ex post).
Ma anche il “dopo” non è stato da medaglia al valore dell’informazione.
Valga, per tutti i possibili esempi, la tanto invocata imitazione delle società calcistiche inglesi, quasi tutte proprietarie degli impianti di gioco.
La proprietà privata degli stadi è stata certo favorita in Inghilterra dai finanziamenti pubblici, ma la legge ha imposto ai clubs proprietari rigide misure di sicurezza, riguardanti anche la struttura degli impianti (che devono prevedere, ad esempio: una sala monitors; un numero di celle per detenzione immediata in rapporto alla capienza; la sola presenza di posti a sedere e numerati; etc.).
Il “modello inglese” è stato in parte seguito anche dalla Germania, che ha saputo sfruttare positivamente l’occasione del mondiale di calcio 2006 per privatizzare e modernizzare gli impianti sportivi (tutti privi di barriere tra campo e tribune, dotati di efficientissimi impianti video, con sale monitors controllate dagli addetti della Forza Pubblica, coadiuvati nei compiti di prevenzione e sicurezza dagli stewards dei clubs).
In Italia, al fine di facilitare la messa in sicurezza degli stadi, l’art.10 del “D.L.Amato” consente alle stesse società di provvedervi ed impone alla Pubblica Amministrazione competente di rilasciare le autorizzazioni necessarie entro il termine brevissimo di 48 ore dalla proposizione della correlativa istanza (con una ipotesi di silenzio-assenso in caso di mancata risposta).
Nel passaggio ad uno dei rami del Parlamento, la legge di conversione, nel testo allora in fase di approvazione, poneva le spese di tali interventi a carico dei clubs calcistici, mentre la stesura che ha ottenuto, non senza polemiche, l’approvazione definitiva ha ribadito la sola facoltà delle società di calcio di provvedervi (“possono provvedere”), peraltro saggiamente prevedendo che ciò avvenga “senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”.
Il tema è scottante ed è stato affrontato con estrema benevolenza proprio a favore di quei clubs che, nel tempo, hanno dimostrato ben scarso interesse ad investire nelle strutture e nella sicurezza, dilapidando invece i loro patrimoni in folli spese sul mercato e negli ingaggi dei loro calciatori.
In effetti, non si vede come, in assenza di un obbligo di attivazione a carico della società calcistiche, possano provvedere all’adeguamento degli impianti gli enti pubblici territoriali che ne sono oggi i proprietari, soprattutto in tempi di restrizione delle risorse: se non sopraggiungeranno opportune modifiche alla legge, potremmo ben considerare questa un’altra occasione persa sul fronte della sicurezza ed una ennesima vittoria della potente lobby della società professionistiche.
Di tutto ciò non ho trovato un solo rigo di denuncia da parte degli organi d’informazione, neppure ad opera di quelli che del modello inglese in tema di proprietà degli stadi hanno fatto, nel periodo “caldo” che ha seguito la morte dell’Ispettore Filippo Raciti, una sorta di colonna sonora delle loro quotidiane pubblicazioni.

3. L’informazione sull’operato della Giustizia.
Come già detto, pur con inevitabili forti contrasti e nella contraddittorietà di alcune soluzioni, le Istituzioni dello Stato hanno finalmente dimostrato la ferma volontà di affrontare in modo profondo il problema della violenza degli stadi.
Il “Decreto Amato”, pur introducendo importanti novità sul piano della prevenzione, ha confermato ed ampliato l’ìmpianto repressivo del “Decreto Pisanu” (dall’inasprimento del D.A.S.P.O. e delle pene per i reati “da stadio”, all’ampliamento del contesto temporale e logistico dei fatti punibili e delle stesse condotte sanzionate).
Al di là di ogni ragionevole contestazione, non v’è dubbio che la Giustizia abbia dato una risposta chiara ed inequivoca ai violenti da stadio, come è testimoniato dagli innumerevoli procedimenti penali aperti, dalle pene sin qui comminate nelle ipotesi in cui il codice procedurale ha consentito un processo rapido, nonché dai numerosi provvedimenti restrittivi sin qui adottati.
E’, pertanto, almeno stupefacente osservare come i nostri mezzi d’ìnformazione (forse nell’evidente intento di cavalcare la convinzione popolare secondo la quale la magistratura -novella Penelope- è impegnata a disfare le buone trame realizzate dalle forze dell’ordine) hanno trattato la notizia della scarcerazione di 7 degli 8 arrestati nell’immediatezza dei fatti di Catania.
In sintesi, anche riportando acriticamente e senza alcuna doverosa informazione i lamenti di qualche notabile della Lega Calcio, è stata confezionata la seguente “notizia”: il Governo, con il “Decreto Amato”, decide il massimo di repressione ed i Magistrati, con le scarcerazioni, non applicano una norma di legge da tutti condivisa e voluta.
A riprova di ciò, è stato enfatizzato il caso di un rispettabile tifoso bolognese che, reo di avere lanciato un seggiolino dalla tribuna dello stadio, si è invece visto convalidare l’arresto dal G.I.P. (pur di fronte al parere negativo del P.M.).
Ai “disinformatori” nostrani è, però, sfuggito un piccolo particolare (dimenticanza magari scusabile per un comune cittadino non avvezzo alle cose di legge, ma non certo per chi ha l’onere di dare le notizie nel modo più corretto e completo): i tragici fatti di Catania sono, ovviamente, anteriori alla entrata in vigore del “Decreto Amato” che, pertanto, non poteva certo trovare applicazione al caso degli 8 arrestati per i fatti del 2.2.2007, mentre la vicenda accaduta in quel di Bologna si colloca in un momento successivo alla predetta decretazione d’urgenza (che, pertanto, poteva e doveva essere applicata dal magistrato).
Ogni ulteriore commento parrebbe del tutto superfluo.
Così non è parso, invece, a qualche politico assetato di notizie da utilizzare a scopo denigratorio del grande “nemico” togato.
Eloquente, in tal senso, è l’assai tempestiva interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia presentata il giorno 1.3.2007 alla Camera dei Deputati dall’Onorevole Fasolino. Commentando la predetta decisione del Tribunale del Riesame di Catania, ha tra l’altro affermato “che il ventre molle della difesa dell’ordine pubblico in Italia è rappresentato da circoscritti e ben definiti settori della Magistratura, incredibilmente appiattiti sul teorema dell’insindacabilità dei giovani e giovanissimi nonché di un preteso ruolo vessatorio ed autoritario delle forze dell’ordine” e che “si debbono porre di fronte alle loro responsabilità, anche opportunamente perseguendole, i Magistrati che sbagliano e di fatto favoriscono con sentenze e provvedimenti errati il permanere dello stato di disordine e di ingovernabilità del calcio e, più in generale, dell’ordine pubblico in Italia”.
Anche qui, ogni ulteriore commento…
La disinformazione sull’operato della giustizia, peraltro, può trovare facile gioco non solo nel momento in cui si forniscono notizie non veritiere o non corredate da idonei elementi valutativi, ma anche qualora l’attenzione sia volutamente e reiteratamente concentrata su una vicenda giudiziaria le cui sorti appaiono, nella percezione del lettore, idonee e sufficienti a connotare l’operato degli organi della magistratura.
La presenza del Col. Luciano Garofano mi stimola a riflettere sulla vicenda di A.S., il ragazzo di soli 17 anni indagato per omicidio dopo la morte dell’Ispettore Filippo Raciti.
Pur assetato fruitore quotidiano di notizie, non ho un interesse morboso a conoscere le sorti ed ogni particolare del processo a carico del minorenne in questione.
Tanto più nella consapevolezza dell’enorme difficoltà di reperire, nel doveroso rispetto dei diritti dell’indagato e della presunzione di innocenza, prove o anche rilevanti indizi di colpevolezza (tant’è vero che si è reso necessario il ricorso all’esperienza degli investigatori del R.I.S.) e che una simile situazione possa condurre, come di fatto stà accadendo, a decisioni processuali ed a sviluppi tra di loro apparentemente contrastanti.
La vera notizia per me è, invece, la certa partecipazione di A.S. alle violenze ripetute e gravissime contro la Polizia e, dunque, la responsabilità morale sua e di migliaia di ultras non solo per la morte dell’Ispettore Raciti, ma anche per le gravi violazioni di legge e della sicurezza delle persone, perpetrate in quella ed in (troppe) altre occasioni.
La signora Marisa Grasso Raciti, con la dignità ma anche con l’indignazione di una persona colpita così immotivatamente negli affetti, ha rammentato tutte le altre volte che il marito, al rientro dal servizio prestato presso questo o quello stadio, recava con sé (tentando invano di celarli) gli evidenti segni delle violenze fisiche e morali, subìte nel generale e totale disinteresse.
In quei momenti, informare su questi episodi facilmente conoscibili non avrebbe certamente “fatto notizia” e neppure consentito di vendere migliaia di copie di giornali in più o di incrementare l’audience dei programmi televisivi.
Io credo, invece, che sarebbe stato doveroso dedicare qualche minuto o qualche rigo in meno alle prodezze degli strapagati pedatori nostrani, per dirottarli sulla vita difficile degli uomini delle forze dell’ordine, sottopagati per consentire la prosecuzione dello “spettacolo”.
Questa sì sarebbe stata un’altra “vera” notizia, fatta di coraggiose inchieste preventive, anzichè di commenti facili e postumi di vicende troppo dolorose (che, anche in tal modo, forse si sarebbero potute evitare).
In definitiva, la doverosa fermezza e la rinnovata volontà delle Istituzioni debbono trovare riscontro in ogni settore o componente coinvolti nel progetto di lotta alla violenza da stadio, che non può essere improntato alla sola repressione dei fenomeni delinquenziali.
Solo l’azione e l’iniziativa coordinate di tutti i soggetti protagonisti del mondo del calcio (Istituzioni Pubbliche; Istituzioni Sportive; Clubs e tesserati; operatori dell’informazione; associazioni e privati cittadini) potranno garantire la prevenzione e la repressione dei fenomeni di violenza, al fine di evitare tragici lutti come quello che ha colpito la famiglia RACITI e di consentire, in modo non retorico, la vittoria dello Sport e dei suoi principi universali.
A ciascuno il suo – verrebbe da dire mutuando ben più importanti precedenti letterari – anche se, possibilmente, non in ordine sparso e contrario.

Piero Calabrò – Bema, 7 luglio 2007

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