dalla newsletter del sito Franco Abruzzo.it
I giornalisti, stretti tra politica e conflitti di interessi vecchi e nuovi, cercano autonomia, indipendenza e libertà con l’aiuto della Corte di Strasburgo e anche della Corte di Cassazione
Relazione di Franco Abruzzo
Consigliere dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia
INDICE
1. Premessa. L’influenza delle banche nei media come limite alla libertà dei giornalisti.
2. La regole deontologiche rendono forte la professione di giornalista.
3. Un programma minimo di riforme per rendere libera la professione di giornalista.
4. Giornalisti non più soli. Dalla Corte (di Strasburgo) dei diritti dell’uomo parte (7 giugno 2007) un forte monito al Parlamento italiano chiamato a decidere sul “ddl Mastella” sulla pubblicazione delle intercettazioni. Politici meno potetti rispetto all’uomo della strada. Il diritto dei cittadini di conoscere i fatti prevale sempre sulla segretezza delle carte processuali.
5. Giornalisti non più soli. Cassazione (2 luglio 2007): “I giornali sono cani da guardia della democrazia e delle istituzioni (anche giudiziarie)”. Le stesse parole si leggono nella sentenza di Strasburgo: “…des journalistes qui participent à un débat public d’une telle importance, exerçant ainsi leur mission de « chiens de garde » de la démocratie… ».
6. La magistratura “scopre” di essere un potere, che può essere criticato. Nell’Italia della stampa controllata dalla politica e dalle banche è un’affermazione rivoluzionaria, tale da far capire che anche il potere esecutivo e l’attività parlamentare devono essere controllati dalla stampa. Così vuole una sana e corretta visione della democrazia.
7. La lezione indimenticabile di Mario Borsa e Walter Tobagi
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1. Premessa. L’influenza delle banche nei media come limite alla libertà dei giornalisti. Oggi il problema centrale è quello della difesa della professione di giornalista, che gli editori vogliono distruggere. Gli editori vogliono assemblare i materiali presenti nella rete utilizzando giovani precari e affidare la parte nobile, i commenti, a persone di fiducia (ambasciatori e professori universitari). Questo disegno va contrastato con energia e determinazione. I giornalisti professionisti, mediatori intellettuali tra i fatti e la gente, non sono finiti: hanno un ruolo nella società e nella democrazia italiana. Bisogna battersi perché chi ha interessi privati in altri settori non possieda giornali. Frattanto si è conclusa, pare, nel nostro Paese una furiosa battaglia (soprattutto politica e non solo giudiziaria o economica) attorno a Telecom: attraverso il doppino in un domani vicino passeranno, con internet, programmi tv, sport, cultura, spettacoli. Chi sarà padrone del doppino potrà condizionare la vita politica e la stessa vita democratica del Paese. La prima contromossa è l’approvazione di una legge sullo Statuto dell’impresa editoriale, che separi proprietà azionarie e redazioni. La varietà delle opinioni sulle pagine dei giornali deve garantire il traguardo dell’obiettività minima, che si sostanzia anche nella pubblicazione di tutte le versioni circolanti su un determinato evento. Il pluralismo è un valore da coltivare. “La libertà dei media e il loro pluralismo sono rispettati” afferma solennemente la Costituzione europea. Un principio, che va costruito e implementato a livello continentale.
Il non collateralismo partitico e sindacale dovrà costituire il patrimonio comune di tutti gli iscritti all’Ordine dei Giornalisti. Non collateralismo vuol dire presa di distanza da ogni centro di potere esterno o interno al giornalismo professionale: valore questo da praticare concretamente. Dobbiamo batterci per introdurre una norma antitrust del tipo “chi ha interessi privati in altri settori non può possedere giornali”. Occorre, per legge, separare gli interessi non editoriali degli azionisti da quelli dell’informazione. L’anomalia italiana (a livello internazionale per quanto riguarda il mondo occidentale) è data dal Parlamento, che possiede tre reti tv e tre reti radiofoniche, e dagli editori di giornali e tv, che hanno interessi in altri campi (banche, auto, cemento, assicurazioni, costruzioni, cinema e politica, etc). Anche i grandi investitori pubblicitari condizionano i giornali: gli Stati Uniti insegnano qualcosa al riguardo. Recentemente si è levata una critica a un certo indirizzo che vuole i giornali Usa come mezzo per spingere i lettori allo shopping.
Devono essere sciolti i nodi dei conflitti di interesse, che non riguardano soltanto Silvio Berlusconi.
La presenza delle banche nel capitale delle imprese editoriali è una minaccia reale all’autonomia dei mass media. Se si passerà a un sostanziale regime liberalizzato, il ruolo delle banche nell’editoria rischia di diventare ancor più invasivo soprattutto in caso di crisi delle imprese, quando le banche prendono in mano le redini delle aziende in difficoltà. Un primo passo potrebbe esser quello di recepire nella legge in cantiere di riforma dell’editoria alcuni princìpi elaborati dalla dottrina e in sede sindacale La nuova legge dovrebbe affermare l’indipendenza delle pubblicazioni e dei giornalisti dal potere politico; l’indipendenza delle pubblicazioni e dei giornalisti da ogni gruppo di pressione; la separazione dell’informazione — larga e indipendente — dal commento. Una delle regole più importanti deve riguardare il direttore. L’editore non può legittimamente nominare un direttore se non sono stati prima consultati i giornalisti. Si tratta di un parere, quindi, preventivo e obbligatorio ancorché non vincolante. Contenere le anomalie editoriali italiane e l’influenza delle proprietà sui giornali deve figurare negli impegni del Parlamento, stante il valore fondamentale del giornalismo, che non sopporta censure o autorizzazioni, e il diritto dei cittadini a una informazione onesta e completa. La scommessa è il giornalismo indipendente: può ritrovare cittadinanza in Italia? L’alternativa pessima è il giornalismo schierato con i poteri della politica e dell’economia. In sostanza la libertà di informazione non è una variabile dipendente del mercato, ma è un principio e un diritto fondamentale della Costituzione repubblicana, che va sopraordinata alla proprietà dei giornali.
I giornalisti devono stringersi attorno ai valori fondamentali della Costituzione, i valori di libertà, di dignità della persona, di giustizia, di solidarietà, di uguaglianza, di libertà di manifestazione del pensiero (che si sostanzia nell’esercizio libero e senza censure del diritto “insopprimibile” di cronaca, di informazione e di critica “limitato dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui”).
La Costituzione rimane l’unico baluardo a difesa della libera stampa contro l’arroganza degli editori, che da oltre due anni negano il rinnovo del contratto di lavoro e trattano da paria i freelance e i collaboratori. La libertà di impresa non significa: a) concepire il mercato come un pollaio dove le volpi (=gli editori) possono fare quel che vogliono; b) stravolgere il lavoro intellettuale del giornalista con la sua utilizzazione contemporanea nelle redazioni (anche web) di quotidiani e periodici nonché nei telegiornali e nei radiogiornali. Va salvaguardata la specificità culturale e la professionalità di ogni giornalista. Deve vincere l’Europa in tema di accesso alla professione, collegata strettamente all’Università e svincolata dal potere degli editori di “fare” i giornalisti. L’accesso deve essere esclusivamente affidato alle scuole e ai master universitari biennali riconosciuti dall’Ordine.
2. La regole deontologiche rendono forte la professione di giornalista. La legalità deontologica è un valore da difendere contro chi pensa di ridurre i giornali a meri veicoli di pubblicità spacciata per notizia, di gossip, di foto raccapriccianti e/o impressionanti, di articoli elaborati incollando le agenzie di stampa. I giornalisti devono affermare e far valere il loro ruolo di mediatori intellettuali tra i fatti e i cittadini, non disposti a far battaglie per conto terzi (gli editori, gli azionisti e gli investitori pubblicitari). Le inchieste sui problemi sociali ed economici devono tornare nei giornali. Non è possibile che i giornali “buchino” sistematicamente i grandi scandali economico/finanziari e che gli stessi emergano soltanto dai Palazzi di Giustizia: all’informazione, invece, spetta anticipare i fatti. Oggi prevale la prudenza soprattutto per non scontentare gli azionisti? E’ più opportuno giocare di rimessa, aspettando che le notizie escano dai Palazzi di Giustizia? Il conformismo spesso è una realtà amara.
Le regole deontologiche sono fissate nella legge professionale 69/1963. Questi i principi che si ricavano dagli articoli 2 e 48 della legge n. 69/1963: 1) la libertà di informazione e di critica (valori che fanno definire il giornalismo informazione critica) come diritto insopprimibile dei giornalisti; 2) la tutela della persona umana e il rispetto della verità sostanziale dei fatti principi da intendere come limiti alle libertà di informazione e di critica; 3) l’esercizio delle libertà di informazione e di critica ancorato ai doveri imposti dalla buona fede e dalla lealtà; 4) il dovere di rettificare le notizie inesatte; 5) il dovere di riparare gli eventuali errori; 6) il rispetto del segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse; 7) il dovere di promuovere la fiducia tra la stampa e i lettori; 8) il mantenimento del decoro e della dignità professionali; 9) il rispetto della propria reputazione; 10) il rispetto della dignità dell’Ordine professionale; 11) il dovere di promozione dello spirito di collaborazione tra i colleghi; 12) il dovere di promozione della cooperazione tra giornalisti ed editori. Premesso che l’esame di Stato per i professionisti è un obbligo costituzionale (art. 33, V comma), le “regole” fissate dal legislatore (artt. 2 e 48 l. 69/1963) sono il perno, come afferma il Contratto di lavoro, dell’autonomia dei giornalisti: l’editore non può impartire al direttore disposizioni in contrasto con la deontologia professionale, mentre il direttore deve garantire l’autonomia del suo collettivo redazionale. Le considerazioni sopra esposte consentono di risalire alle ragioni che hanno spinto il Parlamento nel 1963 a tutelare la professione giornalistica. Senza legge professionale, direttori e redattori sarebbero degli impiegati di redazione vincolati soltanto da un articolo (2105) del Codice civile che riguarda gli obblighi di fedeltà verso l’azienda. Il direttore non sarebbe giuridicamente nelle condizioni di garantire l’autonomia della sua redazione. E’ quello che vogliono gli editori. Le norme deontologiche fissate negli articoli 2 e 48 della legge professionale 69/1963 inglobano le regole fissate nelle Carte approvate a partire dal 1990 dalla Fnsi e dall’Ordine nazionale dei giornalisti. “Le prescrizioni contenute nelle carte di autoregolamentazione (Carta di Treviso e Carta dei doveri del giornalista) devono essere ritenute idonee a costituire un’esemplificazione del contenuto “in bianco” delle norme regolamentari di cui agli articoli 2 e 48 della legge n. 69/1963”. (Trib. Milano 12-07-2001; FONTI Giur. milanese, 2002, 33). La Cassazione ha riconosciuto che le regole deontologiche hanno “natura giuridica” (Cass., sez. un., 6 giugno 2002, n. 8225), allargando successivamente la sua visione sulla materia: “Secondo un indirizzo che si va delineando nella giurisprudenza di questa Corte, nell’ambito della violazione di legge va compresa anche la violazione delle norme dei Codici deontologici degli Ordini professionali, trattandosi di norme giuridiche obbligatorie valevoli per gli iscritti all’Albo ma che integrano il diritto oggettivo ai fini della configurazione dell’illecito disciplinare” (cass., sez.un., 23 marzo 2004 n. 5776). In precedenza la sentenza n. 7543 del 9 luglio 1991 (Mass. 1991) della Cassazione civile aveva riconosciuto che “la fissazione di norme interne, individuatrici di comportamenti contrari al decoro professionale, ancorché non integranti abusi o mancanze, configura legittimo esercizio dei poteri affidati agli Ordini professionali, con la consequenziale irrogabilità, in caso di inosservanza, di sanzione disciplinare”. Un ruolo forte hanno il Codice sulla privacy collegato alla nuova Carta di Treviso nonché la Carta dell’informazione economica. Le sanzioni sono comuni e sono quelle fissate dalla legge professionale (avvertimento, censura, sospensione da 2 a 12 mesi e radiazione). L’intera materia del procedimento disciplinare va rivista, riducendo il numero dei giudizi (da 5 a 3) e allargando il Consiglio dell’Ordine a soggetti della società civile, quando opera come giudice disciplinare.
Nel ribadire quanto già detto nella Relazione annuale presentata al Parlamento e cioè che gli Ordini non vanno aboliti ma riformati, Antonio Catricalà, presidente dell’Antitrust, il 28 giugno 2007 ha precisato, – di fronte alle commissioni Giustizia e Attività produttive della Camera sulla riforma delle professioni-. che la riforma delle professioni è auspicata ”non per una questione ideologica, ma perché secondo noi gli Ordini sono un baluardo della deontologia professionale e probabilmente altri giudici potrebbero essere impropri”.
3. Un programma minimo di riforme per rendere libera la professione di giornalista. In conclusione, questi sono i punti essenziali di un programma minimo di riforme della professione di giornalista:
A) affermazione della piena validità dell’accesso esclusivo alla professione per mezzo dei master e delle scuole biennali di giornalismo a numero chiuso ancorati all’Università. Nella riforma della legge 69/1963 chiarire le incompatibilità, stabilendo che chi fa attività giornalistica non può essere presente nei consigli d’amministrazione delle società multimediali. Decadenza automatica dall’Albo per il giornalista, che assume incarichi negli uffici marketing e pr. La legge di riforma professionale deve avare un allegato un Testo unico deontologico che riassuma i principi etici della categoria presenti oggi in varie leggi, nelle carte e nei codici. L’attuale normativa sulla diffamazione sia in sede penale sia in quella civile va cambiata radicalmente, partendo dalla miniriforma votata due anni fa alla Camera e poi affossata al Senato. La normativa sulle intercettazioni telefoniche e sui segreti (istruttorio e professionale del giornalista) va totalmente rivista anche in relazione al Codice della privacy. Vogliamo una legge di un solo articolo: “E’ lecito pubblicata le carte dei fascicoli istruttori sui quali il Gip non abbia apposto il segreto momentaneo”. Il ddl Mastella blocca, invece, ogni tipo di pubblicazione (intercettazioni telefoniche in testa) e proibisce di dar conto delle indagini fino al secondo grado di giudizio, con relativa censura riguardante la pubblicazione di verbali d’interrogatorio, delle ordinanze di custodia cautelare, dei verbali di perquisizione e di sequestro. Il ddl Mastella tutela la classe dirigente del Paese. Una vergogna! Le fasi del procedimento disciplinare vanno ridotte da 5 a 3 (Consiglio regionale, Consiglio nazionale, Cassazione).
C’è bisogno urgente di una nuova legge sulla rettifica che incida sia in sede penale sia in sede civile. Il crescente numero di querele contro giornali e giornalisti rende necessaria una nuova legge sulla rettifica in caso di diffamazione a mezzo stampa. Il problema più significativo è risarcire l’onore delle persone lese e stabilire che la rettifica fatta nei termini previsti dall’articolo 8 della legge 47/1948 ha una funzione di risarcimento e che la stessa evita il procedimento penale e contiene il risarcimento civile. C’è bisogno di una legge di questo genere: i giornali potranno poi scegliere se rettificare o andare al processo penale con il rischio implicito di rischi civilistici. La materia è complessa, perché si tratta di trovare un punto di equilibrio tra l’esigenza giuridica di tutelare l’identità della persona offesa e il diritto di giornali e giornalisti di riferire quel che accade ai cittadini, titolari a loro volta del diritto costituzionale all’informazione (corretta e completa) elaborato dalla Corte costituzionale e dalla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo. In sostanza va affermato il principio secondo il quale la persona offesa che non abbia chiesto la pubblicazione di una rettifica o smentita della notizia lesiva non può chiedere il risarcimento del danno lamentato in conseguenza della stessa. Nel caso di rifiuto di pubblicazione di rettifica o smentita, sono civilmente responsabili per il risarcimento del danno, in solido con gli autori del reato e fra di loro, il proprietario della pubblicazione e l’editore. Nel caso di pubblicazione di rettifica o smentita, la persone offesa può chiedere il risarcimento del danno qualora dimostri, in relazione alla gravità dell’illecito e alle circostanze, che l’adempimento non costituisca riparazione sufficiente.
B) dibattito sui condizionamenti delle banche e della pubblicità nella vita dei giornali di carta, tv, radiofonici e web con l’obiettivo di proporre al Parlamento una organica riforma dell’editoria che faccia prevalere il diritto di cronaca e il diritto dei cittadini all’informazione sulle azioni dei proprietari dei giornali stessi. Gli slogan di questa battaglia altamente civile sono questi: “Banchieri, giù le mani dai giornali” e “La pubblicità stia al suo posto e non sostituisca l’informazione”. Sviluppare una intensa campagna nei luoghi di lavoro, perché siano respinte certe offerte indebite di favori da parte di pr e aziende. Gli uffici marketing non devono interferire con il lavoro dei direttori e delle redazioni;
C) Difesa del ruolo degli inviati speciali, cancellati come qualifica dal Contratto del 2001 per un errore imperdonabile della Fnsi. Attraverso la figura dell’inviato, dobbiamo difendere la specificità e l’originalità di ogni giornale inteso come opera collettiva dell’ingegno. No ai giornali copia e incolla, sì ai giornali costruiti dai giornalisti, che devono tornare a parlare con la gente nelle città e nei paesi della Penisola. Sì ai cronisti, che battono i marciapiedi e consumano le scarpe alla ricerca di notizie. Ferma condanna della scelta degli editori di utilizzare le tecnologie informatiche come taglio dei costi. Chiedere organici delle cronache adeguati alla realtà complessa delle nostre città e delle aree urbane nonché della nostra realtà sociale/economica e della nostra vita civile. Le inchieste sono state sostanzialmente abolite almeno negli ultimi 15 anni. Dobbiamo tornare a fare inchieste, che facciano male a qualcuno, soprattutto ai poteri forti (banche, grande industria, assicurazioni, mondo politico). I Palazzi non sono luoghi inviolabili!!!!
4. Giornalisti non più soli. Dalla Corte (di Strasburgo) dei diritti dell’uomo parte (7 giugno 2007) un forte monito al Parlamento italiano chiamato a decidere sul “ddl Mastella” sulla pubblicazione delle intercettazioni. Politici meno potetti rispetto all’uomo della strada. Il diritto dei cittadini di conoscere i fatti prevale sempre sulla segretezza delle carte processuali.
Il 17 aprile 2007 potrebbe essere ricordato come la giornata nera per eccellenza per il diritto dei cittadini ad essere informati e per la libertà di chi esercita la professione di giornalista. Quel giorno, la Camera dei deputati, con voto unanime, ha approvato il “ddl Mastella” sulle intercettazioni. Tra le novità introdotte nel testo la reclusione fino a trenta giorni di carcere o, in alternativa, un’ammenda da 10mila a 100mila euro per chi pubblica o diffonde il contenuto di atti di indagine e di intercettazioni telefoniche, anche se non più coperte dal segreto, prima che sia cominciato il dibattimento. Il testo del disegno di legge introduce una serie di divieti per stroncare la diffusione di notizie lesive della privacy (soprattutto di chi non è coinvolto nelle indagini), vietando la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, degli atti di indagine contenuti nel fascicolo del Pm o della difesa, nonché delle conversazioni telefoniche e dei dati sul traffico telefonico o telematico, fino al termine dell’udienza preliminare. Il provvedimento infine prevede che i magistrati potranno utilizzare le intercettazioni illegali solo come corpo del reato con l’obbligo di conservarle per cinque anni in un apposito archivio riservato (lo stesso nel quale finiscono le intercettazioni legali, ma non rilevanti per le indagini). Per chi rivela queste informazioni, scatta il carcere da sei mesi a quattro anni. Era apparso choccante l’approvazione all’unanimità del provvedimento: destra e sinistra, Berlusocni e Prodi, Fassino e Fini, Rutelli e Casini, Giordano e Bossi, Rotondi e Diliberto sembravano aver sottoscritto un patto di ferro e formato un fronte vastissimo a difesa dei privilegi della “casta” politica limitativi della libertà di cronaca senza censure e senza autorizzazioni di sorta. I giornalisti erano soli e disperati, parlavano nel deserto inascoltati, stretti nella morsa micidiale editori-politici, gli uni bastonavano e legavano i cronisti a una inferriata e gli altri, i politici, che si vendicano in maniera chiara e netta, punendo i cronisti “ficcanso”.
Ho dettato il titolo di questo intervento nelle ore ’amare di una battaglia che sembrava perduta. Poi nello spazio di pochi giorni, tra il 7 giugno e il 2 luglio, due colpi di scena clamorosi, il primo a Strasburgo e il secondo a Roma, hanno ribaltato la situazione.
La notizia di Strasburgo è stata data il 21 giugno da “Il Sole 24 Ore”, a firma di Marina Castellaneta, confinata nelle pagine delle Norme. In breve la Corte di Strasburgo, con una coerenza molto bella e spavalda, ha sancito la prevalenza dell’informazione sulle esigenze istruttorie. Questo il titolo del quotidiano:
Corte Ue. Prevale l’informazione.
Libertà di stampa più forte dell’istruttoria.
SEGRETO LIMITATO: due giornalisti
francesi avevano rivelato il sistema di
intercettazioni illegali
durante la presidenza di Mitterand.
Ho atteso qualche giorno prima di rilanciare attraverso internet quella notizia, che mi aveva dato gioia ed energia. Era una notizia che faceva sognare. Ha scritto Marina Castellaneta:
“Il diritto della stampa di informare su indagini in corso e quello del pubblico di ricevere notizie su inchieste scottanti prevalgono sulle esigenze di segretezza. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti dell’uomo che, nella sentenza del 7 giugno scorso, ha condannato la Francia per violazione della libertà di espressione (ricorso n. 1914/02). Questo perché i tribunali interni avevano condannato due giornalisti che avevano pubblicato un libro sul sistema di intercettazioni illegali attuato durante la Presidenza Mitterand.
Nell’opera, oltre che stralci di dichiarazioni al giudice istruttore e brogliacci delle intercettazioni, era contenuto l’elenco delle persone sottoposte ai controlli telefonici. Se i giudici francesi hanno fatto pendere l’ago della bilancia verso la tutela del segreto istruttorio, punendo i giornalisti, la Corte europea ha invece rafforzato il ruolo della stampa nella diffusione di fatti scottanti, soprattutto quando coinvolgono politici. In questi casi, i limiti di critica ammissibili sono più ampi, perché sono interessate persone che si espongono volontariamente a un controllo sia da parte dei giornalisti, che della collettività.
La Corte europea ha ammesso che i due autori avevano violato le norme sul segreto istruttorio, ma ha riconosciuto prevalente l’esigenza del pubblico di essere informato sul procedimento giudiziario in corso e sui fatti oggetto del libro, al quale erano allegati alcuni verbali di intercettazioni.
È legittimo – secondo i giudici europei – accordare una protezione particolare al segreto istruttorio, sia per assicurare la buona amministrazione della giustizia, sia per garantire il diritto alla tutela della presunzione d’innocenza delle persone oggetto d’indagine. Ma su queste esigenze prevale il diritto di informare, soprattutto quando si tratta di fatti che hanno raggiunto una certa notorietà tra la collettività. Non solo. La Corte europea ha ribaltato l’onere della prova: non tocca ai giornalisti dimostrare che non hanno violato il segreto istruttorio, ma spetta alle autorità nazionali dimostrare in quale modo «la divulgazione di informazioni confidenziali può avere un’influenza negativa sulla presunzione di innocenza» di un indagato. In caso contrario, la protezione delle informazioni coperte da segreto non «è un imperativo preponderante». Ciò che conta è che i giornalisti agiscano in buona fede, fornendo dati esatti e informazioni precise e autentiche nel rispetto delle regole deontologiche della professione.
Una bocciatura anche per le pene disposte dai tribunali nazionali. Secondo la Corte europea, infatti, la previsione di un’ammenda e l’affermazione della responsabilità civile dei giornalisti possono avere un effetto dissuasivo nell’esercizio di questa libertà, effetto che non viene meno anche nel caso di ammende relativamente moderate”.
La Convenzione europea dei diritti dell’Uomo (legge 4 agosto 1955 n. 848) con l’articolo 10, tutela espressamente le fonti dei giornalisti, stabilendo il diritto a “ricevere” notizie. Lo aveva già spiegato la Corte dei diritti dell’Uomo di Strasburgo con la sentenza che ha al centro il caso del giornalista inglese William Goodwin (Corte europea diritti dell’Uomo 27 marzo 1996, Goodwin c. Regno Unito in https://www.odg.mi.it/docview.asp?DID=179). La Corte, muovendo dal principio che ad ogni giornalista deve essere riconosciuto il diritto di ricercare le notizie, ha ritenuto che “di tale diritto fosse logico e conseguente corollario anche il diritto alla protezione delle fonti giornalistiche, fondando tale assunto sul presupposto che l’assenza di tale protezione potrebbe dissuadere le fonti non ufficiali dal fornire notizie importanti al giornalista, con la conseguenza che questi correrebbe il rischio di rimanere del tutto ignaro di informazioni che potrebbero rivestire un interesse generale per la collettività”.
L’ordinamento europeo impedisce ai giudici nazionali di ordinare perquisizioni negli uffici e nelle abitazioni dei giornalisti nonché nelle “dimore” dei loro avvocati a caccia di prove sulle fonti confidenziali dei cronisti: “La libertà d’espressione costituisce uno dei fondamenti essenziali di una società democratica, e le garanzie da concedere alla stampa rivestono un’importanza particolare. La protezione delle fonti giornalistiche è uno dei pilastri della libertà di stampa. L’assenza di una tale protezione potrebbe dissuadere le fonti giornalistiche dall’aiutare la stampa a informare il pubblico su questioni d’interesse generale. Di conseguenza, la stampa potrebbe essere meno in grado di svolgere il suo ruolo indispensabile di “cane da guardia” e il suo atteggiamento nel fornire informazioni precise e affidabili potrebbe risultare ridotto”. Questi sono i principi (vincolanti anche per i nostri magistrati) sanciti nella sentenza Roemen 25 febbraio 2003 (Procedimento n. 51772/99) della quarta sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo (il testo è in https://www.odg.mi.it/docview.asp?DID=554).
Va detto anche che gli articoli della Convenzione operano e incidono unitamente alle interpretazioni che la Corte di Strasburgo ne dà attraverso le sentenze. Le sentenze formano quel diritto vivente al quale i giudici e i magistrati (dell’Ufficio del Pm) dei vari Stati contraenti sono chiamati ad adeguarsi sul modello della giustizia inglese. «La portata e il significato effettivo delle disposizioni della Convenzione e dei suoi protocolli non possono essere compresi adeguatamente senza far riferimento alla giurisprudenza. La giurisprudenza diviene dunque, come la Corte stessa ha precisato nel caso Irlanda contro Regno Unito (sentenza 18 gennaio 1978, serie A n. 25, § 154) fonte di parametri interpretativi che oltrepassano spesso i limiti del caso concreto e assurgono a criteri di valutazione del rispetto, in seno ai vari sistemi giuridici, degli obblighi derivanti dalla Convenzione….i criteri che hanno guidato la Corte in un dato caso possono trovare e hanno trovato applicazione, mutatis mutandis, anche in casi analoghi riguardanti altri Stati» (Antonio Bultrini, La Convenzione europea dei diritti dell’Uomo: considerazioni introduttive, in Il Corriere giuridico, Ipsoa, n. 5/1999, pagina 650). D’altra parte, dice l’articolo 53 della Convenzione, «nessuna delle disposizioni della presente Convenzione può essere interpretata in modo da limitare o pregiudicare i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali che possano essere riconosciuti in base alle leggi di ogni Paese contraente o in base ad ogni altro accordo al quale tale Parte contraente partecipi». Vale conseguentemente, con valore vincolante, l’interpretazione che della Convenzione dà esclusivamente la Corte europea di Strasburgo. Non a caso il Consiglio d’Europa, nella raccomandazione R(2000)7 sulla tutela delle fonti dei giornalisti, ha scritto testualmente: «L’articolo 10 della Convenzione, così come interpretato dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo, s’impone a tutti gli Stati contraenti». Su questa linea si muove il principio affermato il 27 febbraio 2001 dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo: ”I giudici nazionali devono applicare le norme della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo secondo i principi ermeneutici espressi nella giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo” (in Fisco, 2001, 4684).
La Convenzione europea dei diritti dell’Uomo e le sentenze di Strasburgo rendono forte il lavoro del cronista. Le vicende Goodwin e Roemen sono episodi che assumono valore strategico. Quelle sentenze possono essere “usate”, quando i giudici nazionali mettono sotto inchiesta, sbagliando, i giornalisti, che si avvalgono del segreto professionale. Davanti ai magistrati delle Procure, i giornalisti (incriminati per violazione del segreto istruttorio o sottoposti a perquisizione dal Pm a caccia delle prove sulle fonti) devono invocare l’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo nelle interpretazioni vincolanti date dalle sentenze Goodwin e Roemen. I giornalisti devono rifiutarsi di rispondere ai giudici in tema di segreto professionale, invocando, con le norme nazionali (articolo 2 della legge professionale n. 69/1963 e articolo 138 del Dlgs 196/2003 sulla privacy), la protezione dell’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo nell’interpretazione che la Corte di Strasburgo ne ha dato con le sentenze Goodwin e Roemen.
Questa linea è l’unica possibile anche per evitare di finire sulla graticola dell’incriminazione per “violazione del segreto d’ufficio” (art. 326 Cp) in concorso con pubblici ufficiali (per lo più ignoti), cioè con coloro che, – magistrati, cancellieri o ufficiali di polizia giudiziaria -, hanno “spifferato” le notizie ai cronisti. In effetti l’eventuale responsabilità, collegata alla fuga di notizie, grava solo sul pubblico ufficiale che diffonde la notizia coperta da vincoli di segretezza e non sul giornalista che la riceve e che, nell’ambito dell’esercizio del diritto-dovere di cronaca, la divulga. Va affermato il principio secondo il quale il giornalista, che riceva una notizia coperta da segreto, può pubblicarla senza incorrere nel reato previsto dall’articolo 326 Cp. E’ palese la differenza con il reato di corruzione, che colpisce sia il corrotto sia il corruttore. L’articolo 326 Cp, invece, punisce solo chi (pubblico ufficiale) viola il segreto e non chi (giornalista) riceve l’informazione e la fa circolare. Ferma restando, ad ogni modo, la prerogativa del giornalista di non rivelare l’identità delle proprie fonti. Il giornalista, che svela le sue fonti, rischia il procedimento disciplinare al quale non può, comunque, sfuggire per l’evidente violazione deontologica. Una lettura ragionevole dell’articolo 326 Cp evita l’incriminazione (assurda) del giornalista per concorso nel reato (con il pubblico ufficiale…..loquace) e le perquisizioni, arma ormai spuntata dopo la sentenza Roemen della Corte di Strasburgo.
5. Giornalisti non più soli. Cassazione (2 luglio 2007): “I giornali sono cani da guardia della democrazia e delle istituzioni (anche giudiziarie)”. Le stesse parole si leggono nella sentenza di Strasburgo: “…des journalistes qui participent à un débat public d’une telle importance, exerçant ainsi leur mission de « chiens de garde » de la démocratie…».
La sera del 2 luglio, tre agenzie (Ansa, Agi e Apcom) battono la notizia di una incredibile sentenza, che onora tutta la Magistratura italiana. Vince in Italia la visione americana del ruolo della stampa: “I giornali sono cani da guardia della democrazia e delle istituzioni (anche giudiziarie)”. C’è una insolita assonanza con la sentenza di Strasburgo del 7 giugno: anche a Strasburgo hanno scoperto la visione americana della stampa cane da guardia dei poteri. Nella sentenza 25138/2007 della quinta sezione penale della Corte di Cassazione – che è una botta micidiale indiretta al “ddl Mastella” sulle intercettazioni (che protegge i politici di destra e sinistra dalle “curiosità” dei cronisti) – si legge: “La libertà di manifestazione del (proprio) pensiero garantito dall’art. 21 Cost., come dall’art. 10 della Convenzione Edu, include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee o critiche su temi d’interesse pubblico, dunque soprattutto sui modi d’esercizio del potere qualunque esso sia, senza ingerenza da parte delle autorità pubbliche”. Scrivono i giudici di Strasburgo nella sentenza del 7 giugno 2007 (collegata al ricorso n. 1914/02): «46. La Cour estime au demeurant qu’il convient d’apprécier avec la plus grande prudence, dans une société démocratique, la nécessité de punir pour recel de violation de secret de l’instruction ou de secret professionnel des journalistes qui participent à un débat public d’une telle importance, exerçant ainsi leur mission de « chiens de garde » de la démocratie. L’article 10 protège le droit des journalistes de communiquer des informations sur des questions d’intérêt général dès lors qu’ils s’expriment de bonne foi, sur la base de faits exacts et fournissent des informations « fiables et précises » dans le respect de l’éthique journalistique (Goodwin, précité, § 39 ; Fressoz et Roire, précité, § 54 ; Colombani et autres c. France, arrêt du 25 juin 2002, § 65, CEDH 2002-V). Or, en l’espèce, il ressort des allégations non contestées des requérants que ceux-ci ont agi dans le respect des règles de la profession journalistique, dans la mesure où les publications litigieuses servaient ainsi non seulement l’objet mais aussi la crédibilité des informations communiquées, attestant de leur exactitude et de leur authenticité (Fressoz et Roire, précité, § 55) ».
E’ possibile ricostruire i passaggi essenziali della sentenza della Cassazione attraverso i lanci delle agenzie Ansa, Agi e Apcom:
A. Versione ANSA/CASSAZIONE: I GIORNALI SONO CANI DA GUARDIA DELLA DEMOCRAZIA
Roma, 2 luglio 2007. I giornali sono i ‘cani da guardia’ della democrazia e pertanto gli articoli che attaccano l’operato della magistratura rientrano nell’esercizio di critica proprio della liberta’ di stampa. Per questo motivo la Cassazione ha assolto Vittorio Feltri denunciato per diffamazione dall’ex Pm Gherardo Colombo. La Corte d’appello di Brescia nel dicembre 2003 aveva condannato il giornalista a sei mesi (poi commutati in multa) per un editoriale pubblicato sul quotidiano ”Il Giorno” nel 1999, nel quale Feltri accusava il pool di Mani pulite di aver, ad un certo punto, svolto indagini solo su Silvio Berlusconi e non aver fatto la stessa cosa nei confronti degli ex comunisti. Accanto all’articolo compariva una foto di Colombo, circostanza che aveva fatto scattare la querela da parte del magistrato. La Cassazione (con la sentenza n. 25138) ha annullato la decisione dei giudici bresciani non solo perché‚ non si ravvisa nessuna accusa esplicita nei confronti di Colombo (semmai le critiche erano mosse all’intero pool di magistrati) ma anche perché‚ Feltri non è punibile in quanto ha agito secondo il diritto di critica garantito dall’art. 21 della Costituzione. ”Il ruolo fondamentale nel dibattito democratico svolto dalla liberta’ di stampa (dicono gli ‘ermellini’) non consente, in altri termini, di escludere che essa si esplichi in attacchi al potere giudiziario, perché‚ i giornali sono i ‘cani da guardia’ della democrazia e delle istituzioni, anche giudiziarie”.
B. Versione ADNKRONOS/ CASSAZIONE: FELTRI NON DIFFAMO’ POOL MANI PULITE = ANNULLATA SENZA RINVIO CONDANNA A SEI MESI del DIRETTORE di ‘LIBERO’
Roma, 2 luglio 2007. Vittorio Feltri’ non diffamò il pool Mani pulite e in particolare il magistrato Gherardo Colombo. Lo ha stabilito la quinta sezione penale della Corte di Cassazione che ha annullato senza rinvio, con la sentenza n. 25138, la condanna a sei mesi di reclusione inflitta al direttore di ”Libero” dalla Corte d’Appello di Brescia. Secondo la Suprema Corte, “il ruolo fondamentale nel dibattito democratico svolto dalla libertà di stampa non consente di escludere che esso si esplichi in attacchi al potere giudiziario”, perché ”i giornali sono i cani da guardia della democrazia e delle istituzioni, anche giudiziarie”. In particolare, la Corte di Cassazione sottolinea: ”Non può negarsi che la critica sia legittima anche quando ha ad oggetto l’attività giudiziaria. La libertà di manifestazione del (proprio) pensiero garantito dall’art. 21 Cost., come dall’art. 10 della Convenzione Edu, include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee o critiche su temi d’interesse pubblico, dunque soprattutto sui modi d’esercizio del potere qualunque esso sia, senza ingerenza da parte delle autorità pubbliche”. Insomma, per quanto aspra, la critica sull’imparzialità della magistratura è espressione della libertà d’opinione tutelata dalla Costituzione e in questo senso l’affermazione contestata, “a un certo punto la macchina si ferma o meglio va avanti solo per incastrare Berlusconi”, non è diffamatoria.
C. Versione APCOM/CASSAZIONE: STAMPA CANE DA GUARDIA DEMOCRAZIA. NO alla condanna di FELTRI. Non diffamò pm Colombo. Libertà d’opinione anche per critiche alle toghe.
Roma, 2 luglio 2007. La quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha annullato la condanna a sei mesi di reclusione inflitta dalla Corte d’Appello di Brescia a Vittorio Feltri per diffamazione a mezzo stampa. Nell’articolo “incriminato” veniva commentato in modo polemico l’operato del pool Mani pulite e, fra gli altri, del magistrato Gherardo Colombo. In particolare, era stata contestata l’affermazione: “a un certo punto la macchina si ferma o meglio va avanti solo per incastrare Berlusconi”. Per quanto aspra, la critica sull’imparzialità della magistratura è espressione della libertà d’opinione, tutelata dalla Costituzione: ha affermato la Corte di cassazione che, con la sentenza n. 25138 depositata oggi, ha accolto il ricorso di Feltri e annullato, senza rinvio, la condanna pronunciata nel dicembre 2003 dal Tribunale di Brescia e poi confermata, due anni più tardi, dalla Corte territoriale. “Innanzitutto – si legge in uno dei passaggi chiave della sentenza della Suprema Corte – in linea teorica non può negarsi che la critica sia legittima anche quando ha ad oggetto l’attività giudiziaria. La libertà di manifestazione del (proprio) pensiero garantito dall’art. 21 Cost. come dall’art. 10 della Convenzione EDU, include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee o critiche su temi d’interesse pubblico, dunque soprattutto sui modi d’esercizio del potere qualunque esso sia, senza ingerenza da parte delle autorità pubbliche”. Non è tutto. “Il ruolo fondamentale nel dibattito democratico – continua il collegio – svolto dalla libertà di stampa non consente in altri termini di escludere che esso si esplichi in attacchi al potere giudiziario”. Insomma, “i giornali sono i cani da guardia della democrazia e delle istituzioni, anche giudiziarie”.
6. La magistratura “scopre” di essere un potere, che può essere criticato. Nell’Italia della stampa controllata dalla politica e dalle banche è un’affermazione rivoluzionaria tale da far capire che anche il potere esecutivo e l’attività parlamentare devono essere controllati dalla stampa. Così vuole una sana e corretta visione della democrazia.
17 aprile 2007: il giorno della disperazione e della solitudine. 7 giugno e 2 luglio 2007: la speranza di avere finalmente una stampa libera senza censure ed autorizzazioni così come vuole il dettato costituzionale. Con la sentenza 25138/2007, la magistratura ha “scoperto” e scritto di essere un potere, che può essere criticato. Nell’Italia della stampa controllata dalla politica e dalle banche è un’affermazione rivoluzionaria, che deve far capire che anche il potere esecutivo e l’attività parlamentare devono essere controllati dalla stampa. Così vuole una sana e corretta visione della democrazia. Il “ddl Mastella” merita di finire nell’archivio del Parlamento.
All’indomani dell’Unità d’Italia, 146 anni fa, la stampa è nata all’ombra della politica e del potere economico. La missione era quella di “formare gli italiani” (solo il 20% dei regnicoli sapeva leggere e scrivere). Oggi la missione è diversa: formare una classe di giornalisti, deontologicamente forti e convinti, al servizio dei lettori e non degli inserzionisti o degli editori. Dobbiamo diventare adulti, cittadini e giornalisti, magistrati, politici ed editori. La solitudine del quarto potere nell’aprile di quest’anno era palpabile. Bastonati dagli editori e dai politici, i giornalisti erano alle corde. Dopo il 7 giugno e il 2 luglio, hanno alzato la testa, grazie alla Corte di Strasburgo e alla Corte di Cassazione. Un aiuto insperato, inatteso, sconvolgente nella sua freschezza e nella sua attualità. Le cose sono cambiate e soltanto un politico/giurista se ne è accorto. È Cesare salvi, senatore ds in fuga dai ds, presidente della Commissione Giustizia: “Attenti a una sentenza della Corte europea. Strasburgo è vincolante anche per l’Italia”. Ha dichiarato il 3 luglio all’Ansa: ”Abbiamo ripreso l’esame del ddl sulle intercettazioni telefoniche, ma intanto c’e’ una novità: una recente sentenza della Corte Europea, nella quale in materia di intercettazioni si condanna la Francia per una violazione della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo”. Salvi vede delle affinità, in tema di intercettazioni, tra la Francia, incappata nelle sanzioni europee, e il nostro Paese. E intende sollevare il problema in commissione. ”Questa sentenza sulla libertà di stampa e informazione – spiega Salvi – non può non essere tenuta in considerazione anche dal Parlamento. Vero è che il Parlamento è sovrano, ma la convenzione sui diritti dell’uomo è vincolante anche per l’Italia e dovremo tenerne conto. La Francia è stata condannata per violazione dell’ articolo 10 della Convenzione per una vicenda legata ad un collaboratore di Mitterand. In materia di pubblicazione di intercettazioni, la Francia ha una normativa molto simile a quella che il disegno di legge Mastella vuol introdurre in Italia e, quindi, non possiamo non tenere conto di questa sentenza”. Parole sante. Buon segno. Dobbiamo attendere lo sviluppo dei fatti. La battaglia per l’autonomia e l’indipendenza della professione di giornalista può, però, ripartire su basi nuove.
7. La lezione indimenticabile di Mario Borsa e Walter Tobagi. In questo momento difficile il pensiero va a Mario Borsa, il grande giornalista del Secolo, del Times e del Corriere della Sera, e a Walter Tobagi, inviato del Corriere della Sera e presidente dell’Associazione lombarda dei Giornalisti, martire della nostra professione, che, nel 1976, ha rilanciato la lezione morale di Borsa con un saggio pubblicato in “Problemi dell’informazione” (il saggio è in www.odg.mi.it/docview.asp?DID=300): «La libertà – per essere qualche cosa di reale – deve passare – ha scritto Borsa – dalle istituzioni al costume politico: deve essere qualche cosa che non bisogna aspettarsi dagli altri ma che bisogna guadagnarsi, da noi stessi, giorno per giorno come la vita, e nella quale non basta credere. Bisogna soprattutto sentirla. Chi non sente la libertà come un dovere non può invocarla come un diritto». Borsa, nel 1921/24, e Tobagi, nel 1976/1980, hanno difeso l’autonomia e la libertà della nostra professione contro i fascismi neri e rossi dilaganti, pagando il primo il suo coraggio con l’esilio in Patria (“italiano straniero”) e il carcere; il secondo, con la vita. Borsa e Tobagi, come dicevano gli antici greci, sono vivi e attuali e devono rimanere vivi e attuali. La loro lezione ci ha sorretto nelle ore recenti della solitudine, quando non abbiamo sentito neanche la vicinanza della pubblica opinione indifferente a quello che avviene nei Palazzi della politica come se le leggi malfatte non possano poi incidere nella vita di tutti i giorni.
Franco Abruzzo
Consigliere dell’Ordine dei Giornalisti della lombardia
[email protected] – cell. 3461454018