L’informazione italiana, offerta troppo spesso da imprese dalla fisionomia sempre più simile a quella degli apparati statali da cui dipendono, è ormai un affettuoso cane da salotto al servizio del potere
Chi è Max Bono? Un giornalista italiano che vive in Brasile, eppure molto attento alle cose di casa nostra. Bono, in particolare, si interessa di politica e, da qualche tempo a questa parte, il suo occhio è caduto sulla nostrana manifesta e funesta commistione tra il potere governativo e l’editoria. La protesta giornalistica di Bono, che ci riserviamo di seguire con costanza su queste pagine, ci spinge a qualche riflessione sull’argomento. La stampa, come noto, è costituzionalmente libera, così come la manifestazione del pensiero: essa non può essere sottoposta a censure o autorizzazioni. Tuttavia spesso, troppo spesso, la stampa (nell’accezione generale del termine, come vedremo più a fondo tra poco) vive e qualche volta prospera grazie ai contributi elargiti da quel potere che dovrebbe criticare e controllare. Un gigantesco e trasversale conflitto d’interesse, così ramificato, rinsaldato ed esteso da rendere banale quello del Cavaliere che, quantomeno, è alla luce del sole e quindi agevolmente verificabile. E’ vero che è la stessa Costituzione a parlare di finanziamenti della stampa periodica (art. 21 c. 5 Cost. “La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica”); però ciò non significa che i padri della Carta intendessero promuovere la degenerazione attuale delle prebenda editoriali. Max Bono (così come altri giornalisti prima di lui; in vetta la Gabanelli, con Report) sta cercando di seguire sul suo blog il complicato percorso del denaro pubblico destinato alla stampa. Una ragnatela di interessi, che transita tra tutte le maggiori forze politiche italiane e che rende, invero, tortuoso muoversi nell’oscuro anfratto costituito dalle sovvenzioni pubbliche. Società cooperative, associazioni, fondazioni, così come tradizionali società di capitali, banchettano sulla traboccante tavola imbandita dai contribuenti, spartendosi considerevoli fette di provvidenziali aiuti per l’editoria anche attraverso la mediazione di politici che contribuiscono a collocare in seno alle istituzioni (anche) perché perorino il mantenimento di privilegi senza ritegno, frutto di una deriva andata ben oltre agli originari e condivisibili aiuti diretti ed indiretti alla stampa introdotti dal legislatore del 1930. Un do ut des da cui discende un’editoria incapace di informare e criticare liberamente, posto che da quel potere di cui dovrebbe essere garante trae il proprio sostentamento. Chi è l’organismo ospitante e chi il parassita, tra potere ed editoria? Chi dei due succhia energia all’altro, aggredendolo e debilitandolo, senza arrivare al controproducente punto di ucciderlo? Di fatto impossibile dirlo, trattandosi di un patto scellerato. Il punto è che l’editoria italiana ha da tempo spostato il proprio baricentro economico dai criteri di buona gestione aziendale a quelli di mero assistenzialismo. Si sapeva che tale deleterio contegno riguardava principalmente le grandi testate della carta stampata (oltre, ovviamente, a quelle di espressa derivazione partitica), per le quali la pubblicità costituisce ormai il valore aggiunto, essendo le spese di gestione spesso interamente coperte dallo Stato (e nonostante ciò molti soggetti sono in grado di accumulare ingenti perdite d’esercizio, a dimostrare una progressivamente smarrita capacità di gestione imprenditoriale). Meno noto era (prima che qualcuno sollevasse il coperchio della fumante pentola) che da un decennio a questa parte la vena d’oro pubblica è stata scoperta anche da poche (un centinaio) emittenti radiotelevisive locali, che, a dispetto delle altre (ben oltre il migliaio), hanno preso a scavare sempre più alacremente, sprofondando negli oscuri meandri delle ricche miniere statali, vedendo, tuttavia, nel contempo farsi fioca la luce dell’indipendenza. Non ci vogliono fini economisti per capire, scorrendo i bilanci depositati dalle società di capitali o ricostruiti attraverso le Informative Economiche di Sistema inviate annualmente all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (che riguardano tutti i soggetti giuridici e non solo le società di capitali tenute al deposito del bilancio), che senza i contributi governativi tali aziende chiuderebbero baracca e burattini in meno di un esercizio. Il famoso “cane da guardia del potere” di lumettiana memoria è divenuto, come qualcuno ha già definito, un affettuoso cane da compagnia, un mite, grasso e pigro animale da salotto, che ringhia solo quando qualcuno s’avvicina alla sua ciotola. Fanno sorridere oggi gli anatemi degli anni passati, allorquando fini intellettuali si turbavano davanti al “potere” della pubblicità, in grado di condizionare le scelte editoriali dei giornali. Almeno la pubblicità è meritocratica: premia solo i soggetti in grado di vantare effettiva produttività editoriale (per diffusione, autorevolezza e gradimento del pubblico) e non certamente solo chi si accovaccia ai suoi piedi, scodinzolando a comando. Ma di tal malvezzo si parla solo su Internet. Chissà perché.