Non si arresta l’orrore in Myanmar, ex Birmania, dove da giorni imperversano gli scontri tra le forze militari facenti capo al sanguinario dittatore Than Shwe ed i manifestanti pacifici guidati dalla comunità di monaci buddisti del paese, che reclamano il proprio diritto alla libertà. Dopo giorni di pacifiche “sfilate” nelle strade della capitale Yangon (ex Rangoon, che ha cambiato nome, così come la Repubblica, dall’insediamento della dittatura), il governo autoritario ha iniziato ad inviare le proprie truppe (pur con alcune defezioni, a causa della brutalità della manovra militare) per sedare la rivolta: una rivolta pacifica e non violenta sedata con le armi, come nella miglior tradizione dei paradossi antidemocratici che hanno cittadinanza in questo mondo.
La tv birmana, intanto, continua a predicare la calma, etichettando lo scontro brutale che sta avvenendo nel paese come una lecita risposta dei militari ai monaci facinorosi. Come dire, spesso la potenza della macchina informativa, usata per fini ignobili come questo, è più forte di mille kalashnikov. Chi, però, sta combattendo sul campo, chi, per la prima volta nella sua vita si è permesso di indossare magliette con scritto “Suu Kyi libera” (la dissidente, premio Nobel per la pace nel 1992, tenuta da 12 anni agli arresti domiciliari dal regime), sa realmente come stanno andando le cose, sa che i nove morti che la tv di Stato, o di regime, “ammette”, in realtà sono molti di più. I militari hanno iniziato una vera e propria caccia nei confronti dei giornalisti provenienti da tutto il mondo, entrati in Birmania con il visto turistico. Stanno setacciando alberghi, tentando in ogni modo d’impedire che il potere dell’informazione li sovrasti. Un reporter giapponese, il cinquantenne Kenji Nagai, dell’agenzia “Kyodo”, è stato brutalmente assassinato per le strade di Yangon; un altro giornalista, questa volta tedesco, dovrebbe essere stato ucciso, ma tuttora non ci sono conferme in questo senso. Ciò che sta accadendo è ai limiti della realtà, e ciò che è peggio è che il feroce dittatore ed il suo governo tirannico stanno cercando di tappare la bocca dei cronisti, dei reporter, di quanti possano aprire gli occhi al mondo su ciò che sta accadendo in questa terra. Senza di loro la protesta sarebbe già terminata, repressa a suon di armi, e nessuno avrebbe saputo nulla.
L’ago della bilancia, comunque, in quest’intricata faccenda è rappresentato dalla Cina. Il colosso orientale, assieme alla democratica India ed a una Russia sempre più indirizzata verso una regressione antidemocratica, appoggiano il governo sanguinario di Than Shwe per motivi d’interesse economico, e perciò non stanno intervenendo per rimettere l’ordine nella regione. Da par loro, Europa e Stati Uniti predicano preoccupazione, ma restano con le mani in mano. Siamo alle solite. Jane Birkin, popolare attrice e cantante statunitense, intanto, avanza una proposta: “Scendiamo in piazza e rinunciamo a tutti gli interessi economici che abbiamo in Birmania, come ci ha chiesto di fare dal 1988 Aung San Suu Kyi. Se non si è capaci di fare questo, non contiamo nulla”. Pare, questa, l’unica proposta seria, seppur utopica. Gli interessi economici, si sa, per i “grandi” del mondo, contano più di molte vite umane. (Giuseppe Colucci per NL)