da Franco Abruzzo.it
“L’esercizio della funzione disciplinare nell’ambito del pubblico impiego, della magistratura e delle libere professioni si esprime con modalità diverse che caratterizzano i relativi procedimenti a volte come amministrativi, altre volte come giurisdizionali, in rispondenza a scelte del legislatore, la cui discrezionalità in materia di responsabilità disciplinare spazia entro un ambito molto ampio”. Così afferma la sentenza 182/2008 della Corte costituzionale. Questa sentenza rende auspicabile un intervento del legislatore volto a realizzare nella materia disciplinare “un più coerente coordinamento normativo”. Ma è altrettanto evidente che, come scrive la Consulta nella sentenza 505/1995, “ci si trova di fronte ad ordinamenti speciali, fra loro non comparabili e tanto meno equiparabili, data la disomogeneità delle varie categorie, caratterizzate da proprie fisionomie e particolari esigenze”.
Il caso
La sentenza 18272008 riguarda l’articolo 20, comma 2, del dpr 737/1981 in base alla quale un poliziotto sotto procedimento disciplinare debba farsi assistere da un difensore appartenente all’Amministrazione della pubblica sicurezza. Questa norma non è in contrasto con gli articoli 3 (uguaglianza) e 24 (diritto di difesa) della Costituzione. Così ha deciso la Consulta. “Il diritto di difesa – afferma la sentenza – non ha una applicazione piena, nell’ambito dei procedimenti amministrativi. Donde consegue che non possa considerarsi manifestamente irragionevole la decisione del legislatore di consentire che l’accusato ricorra ad un difensore, ma di limitare, in considerazione della funzione svolta (tutela dell’ordine pubblico), la sua scelta ai dipendenti della stessa amministrazione”.
La questione di legittimità, sollevata dal Tar di Catania, è stata liquidata dalla Corte con l’osservazione che “la garanzia costituzionale del diritto di difesa è limitata al procedimento giurisdizionale e non può, quindi, essere invocata in materia di procedimento disciplinare che, viceversa, ha natura amministrativa e sfocia in un provvedimento non giurisdizionale”. L’articolo 24 della Costituzione, se indubbiamente si dispiega nella pienezza del suo valore prescrittivo solo con riferimento ai procedimenti giurisdizionali, “non manca tuttavia di riflettersi in maniera più attenuata sui procedimenti amministrativi, in relazione ai quali, in compenso, si impongono al più alto grado le garanzie di imparzialità e di trasparenza che circondano l’agire amministrativo”.
Il diritto di difesa
In sostanza il procedimento amministrativo disciplinare, – che può concludersi con la destituzione del poliziotto come è avvenuto nel caso specifico – deve garantire all’incolpato “il rispetto di garanzie procedurali per la contestazione degli addebiti e per la partecipazione dell’interessato al procedimento”. Secondo l’interpretazione della Corte di giustizia delle Comunità europee, il diritto di difesa “impone che i destinatari di decisioni che pregiudichino in maniera sensibile i loro interessi siano messi in condizione di far conoscere utilmente il loro punto di vista”. La mancata previsione legislativa della possibilità di nominare quale difensore un avvocato, “anche se il legislatore potrebbe nella sua discrezionalità prevederla seguendo un modello di più elevata garanzia» non viola né il diritto di difesa, né il principio di ragionevolezza, considerato che la stessa norma consente all’inquisito di partecipare al procedimento e di difendere le proprie ragioni”. Neppure risulta violato il principio dell’uguaglianza “sotto il profilo della disparità di trattamento” della categoria dei dipendenti dell’amministrazione di pubblica sicurezza rispetto ad altri dipendenti pubblici che si avvalgono di un difensore iscritto all’Albo degli avvocati. La disparità di trattamento è figlia della “disomogeneità delle categorie”.