Secondo Paolo Jedlowski, noto professore di Sociologia presso l’Università della Calabria, le relazioni quotidiane si giocano anche sulla capacità o meno di raccontare e di ascoltare una storia. In forme diverse, questa capacità attraversa ogni età e ogni strato sociale. La narrazione è quindi una pratica con la quale elaboriamo la nostra esperienza ed entriamo in contatto con gli altri. Queste parole confluiscono in un unico elaborato, un libro intitolato “Storie Comuni”, dove il suddetto sociologo racconta, rivolgendosi sia agli studiosi di comunicazione, sia ai non addetti ai lavori, come la vita possa essere considerata nient’altro che un intreccio di storie. La riduzione, piuttosto telegrafica, del volume di Jedlowski, può comunque diventare un ottimo preambolo per una questione contro la quale l’opinione pubblica sembra doversi scontrare ormai quotidianamente. Infatti, se consideriamo il vocabolo narrazione nella sua primaria accezione, possiamo fondere i diversi contenuti di internet nella stessa definizione: i racconti pubblicati su un blog o i video amatoriali raccolti nei siti di social networking (user-generated-content è diventata la definizione ufficiale anglofona, ndr) diventano così l’espressione di una libertà sotto i riflettori, sotto gli occhi di quella curiosità morbosa, tipica dell’internauta e di cui lui stesso è in qualche modo vittima. Un modo come un altro per ricordare che il web, a differenza di quanto affermano le headline di numerosi siti, non è certo il posto più sicuro per divulgare e archiviare i propri segreti. Il periodico Broadcast&Video ha scelto di chiamarla “cronaca 2.0”, intendendo con questa espressione l’informazione che, talvolta in modo del tutto naturale, altrimenti in versione di fiction, si propone di trasmettere (e quindi di narrare) i più scabrosi e indiscreti dettagli delle “storie comuni”, insieme alla vita delle persone coinvolte nei diversi casi. L’esempio più recente, comodamente a servizio dell’articolo che vi stiamo proponendo, è quello dei ragazzi indagati per l’omicidio di Perugia della britannica Meredith: Raffaele Sollecito e Amanda Knox, sono stati, e sono tuttora, più o meno ragionevolmente, cavie di un meticoloso processo di raccolta informazioni, attraverso le pagine dei rispettivi blog personali su MySpace e Windows Live Space, analogo servizio offerto dal gruppo Microsoft. Le narrazioni quotidiane di Sollecito e della Knox (come del resto eventuali foto e video, farcitura consapevole degli stessi racconti) sono diventati così un’arma a doppio taglio per le indagini sull’omicidio della ragazza inglese e, nella peggiore delle ipotesi, il trampolino di lancio per accuse e insulti gratuiti da parte dei colleghi blogger. La ricerca affannata dei contenuti citati è maturata dall’interesse per il personale dell’attuale pubblico della rete che, nonostante la natura di vocaboli come curiosità e pettegolezzo sembrano essere rimasti invariati nei secoli, trova in internet pane per i propri denti, potendo scavare ben oltre la storia, ben oltre le indiscrezioni. La possibilità, oltretutto gratuita, di arrivare al più profondo e scomodo dei dettagli, nutre avidamente il lettore-internauta che scegli di non accontentarsi di quando vede e sente dai telegiornali. Sembra che la lezione di Jedlowski, che tra l’altro comprende anche i new media, e di tutti gli esperti di comunicazione debba prepararsi a subire ulteriori e notevoli modifiche, motivate dai nuovi modi di raccontarsi presenti nel web. Altro esempio, per certi versi eclatante, per altri molto più che preoccupante, è quello della strage del liceo finlandese di Jokela, dove uno studente diciottenne ha ucciso a colpi di pistola alcuni coetanei, promuovendo precedentemente le sue intenzioni all’ignaro pubblico su YouTube. Anche in questo caso la curiosità per il personaggio omicida è stata tanto profonda da aver smosso la comunità mondiale alla ricerca di dettagli sulla vita privata dell’interessato. Il ragazzo in questione, sebbene si sia suicidato ad attentato concluso, avrebbe fiutato l’affare di una vetrina per la sua storia personale, permettendo al pubblico di conoscere tutti i suoi movimenti e le sue idee in merito all’umanità (la maglietta indossata dal killer nel popolare video, ora rimosso dagli archivi di YouTube, recitava la frase “l’umanità è sovrastimata”, ndr). Se dunque la capacità raccontarsi, come ci spiega Jedlowski, è comune non solo ad ogni strato sociale, ma anche ad ogni età, è bene interrogarsi sulla trasformazione delle storie e dei “diari” delle nuove generazioni, reali confessioni di presunte menti pericolose, disposte presumibilmente a tutto per godere anch’esse di un attimo di popolarità. (Marco Menoncello per NL).