Un paradosso giornalistico ha recentemente scosso la stampa. Il caso è quello di Genova, dove la procura ha avviato un procedimento penale a carico del direttore de Il Secolo XIX e del Corriere Mercantile, Lanfranco Vaccari (53 anni) e 13 dei suoi giornalisti, per aver pubblicato l’identikit del “maniaco dell’ascensore”, personaggio che avrebbe infastidito e intimorito il capoluogo ligure per almeno un paio d’anni. La pena inflitta al gruppo, 177 giorni di carcere, è stata tramutata in una multa da 5.586 euro, ma, naturalmente, non è stata sufficiente a chiudere una questione dalla doppia valenza: da una parte giuridica, dunque relativa alla condannabilità della stampa per la pubblicazione di identikit ufficialmente divulgati; dall’altra parte etica, riguardante l’eventuale efficacia della stessa pubblicazione per la salvaguardia di potenziali vittime.
Sul primo degli aspetti, quello giuridico, è intervenuta la dichiarazione del segretario dell’Associazione nazionale magistrati Nello Rossi: “In materia di documenti su cui vige il segreto d’indagine, qualora colui che avesse dovuto custodire il segreto ne avesse disposto, per esempio attraverso una pubblica dichiarazione o una conferenza stampa, non c’è colpa nei media che sono stati implicitamente informati per informare” (da ItaliaOggi dell’11 settembre, articolo di V. Giannella). Rimane aperta invece la questione morale, decisamente più ampia, per la quale la stampa dovrebbe rinunciare alla sua utilità sociale a causa di leggi troppo restrittive. Secondo la stampa non avrebbe valore un identikit che non possa essere divulgato, tanto da essere considerato un’omissione deplorevole a sfavore dei cittadini, che naturalmente gradirebbero conoscere l’identità dell’eventuale pericolo locale. Il direttore Vaccari, appoggiato non solo dall’Associazione della stampa ligure, ma anche dell’Ordine dei giornalisti e dal Gruppo cronisti, si dichiara perplesso e invita ad una riflessione profonda sull’argomento, invocando il fair play giornalistico, forse in via d’estinzione, che a suo parere avrebbe potuto (o dovuto?) riprendere l’episodio denunciando la libertà di stampa negata. In effetti, com’è possibile che l’episodio genovese abbia meritato molta meno attenzione dei cronisti che, nel ruolo di improvvisati Sherlock Holmes e senza condanna alcuna (anzi, senza nemmeno un rinvio a giudizio), hanno additato il “mostro” di Garlasco? (Marco Menoncello per NL)