Con il ddl intercettazioni tramutato in legge, cronaca giudiziaria destinata a scomparire

I cronisti e i direttori rischiano non solo il carcere “fino a 3 anni”, ma anche la sospensione cautelare dalla professione fino a 3 mesi


Guida al diritto” n. 40/2008 settimanale di “Il Sole 24 Ore”

Analisi di Franco Abruzzo

I cronisti e i direttori rischiano non solo il carcere “fino a 3 anni”, ma anche la sospensione cautelare dalla professione fino a 3 mesi non solo per la pubblicazione di intercettazioni, ma anche se “mediante modalità o attività illecita, prendono – dice il nuovo articolo 617/septies del Cp – diretta cognizione di atti del procedimento penale coperti dal segreto”. L’articolo 58 della legge 69/1963 sull’ordinamento della professione di giornalista impedisce, però, al Consiglio dell’Ordine l’adozione di qualsiasi provvedimento prima della conclusione del processo penale. La nuova norma, pertanto, potrebbe essere inapplicabile, perché non è coordinata con l’articolo 58 citato.
Anche i pubblici ufficiali, -che rivelano illecitamente il contenuto di intercettazioni, conversazioni o interrogatori di testimoni e imputati -, rischiano il carcere non più fino a un anno come accade oggi, ma fino a cinque.

di Franco Abruzzo

I 18 articoli del disegno di legge “Alfano” (varato dal IV Governo Berlusconi il 13 giugno 2008) sulle “Norme in materia di intercettazioni telefoniche, telematiche ed ambientali. Modifica della disciplina in materia di astensione del giudice, degli atti di indagine, e integrazione della disciplina sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche”, una volta diventati legge, decreteranno la fine della cronaca giudiziaria. La cronaca giudiziaria verrà imbrigliata in una ragnatela di vincoli tali da formare un percorso di guerra difficilmente superabile. Con queste clausole in vigore, i quotidiani non avrebbero potuto pubblicare le conversazioni telefoniche (intercettate dalla polizia giudiziaria) tra il Governatore di Bankitalia Fazio e il banchiere Fiorani. Si torna alla legislazione del 1930. Con l’estensione del divieto di pubblicazione degli atti, anche se “non sussiste più il segreto”, anche solo per riassunto, si ritornerebbe al 1930, reimponendo inaccettabili bavagli alla stampa. Il regime fascista, infatti, aveva posto limiti pesantissimi alla cronaca nera e alla cronaca giudiziaria (nelle “direttive alla stampa” emanate nel 1931 da Palazzo Venezia si legge che “i resoconti giudiziari devono essere controllati dal lato politico, eliminando tutto ciò che può nuocere al credito e agli interessi generali della Nazione”; “i fatti di sangue devono essere lasciati ai verbalizzanti delle questure”). Sarebbe problematico, ad esempio, con il ddl tramutato in legge, dare notizie sugli arresti, ovvero sull’esecuzione di una ordinanza applicativa di una misura coercitiva. Atti, questi, non soggetti a segreto. I giornalisti potranno scrivere che un indagato è stato arrestato, ma non potranno dire perché è finito in cella.

I cronisti e i direttori rischiano non solo il carcere “fino a 3 anni”, ma anche la sospensione cautelare dalla professione fino a 3 mesi non solo per la pubblicazione di intercettazioni, ma anche se “mediante modalità o attività illecita, prendono – dice il nuovo articolo 617/septies del Cp – diretta cognizione di atti del procedimento penale coperti dal segreto”.

Le principali novità. Il disegno di legge (ddl) interviene su numerosi articoli della legge n. 47/1948 sulla stampa, del Codice penale, del Codice di procedura penale. Ecco le principali novità che riguardano la professione di giornalista:

Profonde modifiche all’articolo 8 (rettifica) della legge n. 47/1948 sulla stampa: rettifica “senza commento” – L’articolo 15/b del ddl modifica il quarto comma dell’articolo 8 della legge 47/1948, imponendo la pubblicazione della rettifica “senza commento”. Vengono inseriti in questo articoli tre commi nuovi, che riguardano i Tg, i radiogiornali e i siti informatici (non necessariamente registrati in tribunale come è obbligatorio per i giornali telematici) nonché l’autore dell’offesa che ha una capacità autonoma di chiedere al suo direttore la pubblicazione di una rettifica. Ed ecco i tre nuovi commi:

Rettifica di Tv e radio. Per le trasmissioni radiofoniche o televisive, le dichiarazioni o le rettifiche sono effettuate entro quarantotto ore dalla data di ricezione della relativa richiesta. Per i siti informatici, le dichiarazioni o le rettifiche sono pubblicate entro quarantotto ore dalla richiesta, con le stesse caratteristiche grafiche, la stessa metodologia di accesso al sito e la stessa visibilità della notizia cui si riferiscono;

Rettifica della stampa non periodica. Per la stampa non periodica, l’autore dello scritto, ovvero i direttori responsabili provvedono, su richiesta della persona offesa, alla pubblicazione, a propria cura e spese su non più di due quotidiani a tiratura nazionale indicati dalla stessa, delle dichiarazioni o delle rettifiche dei soggetti di cui siano state pubblicate immagini o ai quali siano stati attribuiti atti o pensieri o affermazioni da essi ritenuti lesivi della loro reputazione o contrari a verità, purché le dichiarazioni o le rettifiche non abbiano contenuto di rilievo penale. La pubblicazione in rettifica deve essere effettuata entro sette giorni dalla richiesta con idonea collocazione e caratteristica grafica e deve inoltre fare chiaro riferimento allo scritto che l’ha determinata;

Rettifica dell’autore dell’offesa. Della stessa procedura (stabilita per la pubblicazione di una rettifica nei punti precedenti, ndr) può avvalersi l’autore dell’offesa, qualora il direttore responsabile del giornale o del periodico, il responsabile della trasmissione radiofonica, televisiva o delle trasmissioni informatiche o telematiche non pubblichino la smentita o la rettifica richiesta.

Intercettazioni secretate fino alla conclusione dell’udienza preliminare. Arresto fino a tre anni per i giornalisti che pubblicano le intercettazioni con la coda del procedimento disciplinare che prevede la sospensione cautelare dalla professione fino a tre mesi – Il ddl “Alfano” modifica, con l’articolo 13, sostanzialmente sotto il profilo della pena, il primo comma dell’articolo 684 del Cp: “Chiunque pubblica, in tutto o in parte, anche per riassunto o a guisa d’informazione, atti o documenti di un procedimento penale, di cui sia vietata per legge la pubblicazione è punito con l’arresto fino a sei mesi e con l’ammenda da euro 250 a euro 750” (l’art. 684 in vigore prevede l’arresto fino a trenta giorni o, in alternativa, l’ammenda da euro 51 a euro 258). Il ddl aggiunge un secondo comma (dedicato alle intercettazioni) reso pesante dalla pena dell’arresto fino a 3 anni: “Se il fatto di cui al comma precedente riguarda le intercettazioni di conversazioni o comunicazioni telefoniche, le altre forme di telecomunicazione, le immagini mediante riprese visive, e la acquisizione della documentazione del traffico delle conversazioni o comunicazioni stesse, la pena è dell’arresto da uno a tre anni e dell’ammenda da 500 a 1.032 euro. Non sfugga che il primo comma vieta la pubblicazione di “atti o documenti di un procedimento penale” (pensiamo agli interrogatori di testimoni o imputati o alle relazioni della polizia giudiziaria), mentre il secondo comma concerne le intercettazioni di conversazioni o di telefonate.

L’articolo 2 del ddl modifica in maniera qualificata i commi 2 e 7 dell’articolo 114 del Cp e uccide la cronaca giudiziaria nel senso che vieta la pubblicazione degli atti di indagine fino al termine dell’udienza preliminare; in particolare, con il comma 2 “vieta la pubblicazione, anche parziale o per riassunto o nel contenuto, di atti di indagine preliminare, nonché di quanto acquisito al fascicolo del pubblico ministero o del difensore, anche se non sussiste più il segreto, fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare”. Il comma 7, invece, “in ogni caso vieta la pubblicazione anche parziale o per riassunto della documentazione, degli atti e dei contenuti relativi a conversazioni o a flussi di comunicazioni informatiche o telematiche di cui sia stata ordinata la distruzione ai sensi degli articoli 269 e 271”.

L’articolo 2 del ddl infine chiude il discorso repressivo con la modifica del comma 2 dell’articolo 115 del Cpp. La Procura che indaga il cronista per le violazioni dei divieti dovrà avvertire l’Ordine dei giornalisti affinché valuti se sospenderlo fino a tre mesi dalla professione: “Di ogni iscrizione nel registro degli indagati per fatti costituenti reato di violazione del divieto di pubblicazione commessi dalle persone esercenti la professione giornalistica, il procuratore della Repubblica procedente informa immediatamente l’organo titolare del potere disciplinare, che, nei successivi trenta giorni, ove sia stata verificata la gravità del fatto e la sussistenza di elementi di responsabilità e sentito il presunto autore del fatto, può disporre la sospensione cautelare dal servizio o dall’esercizio della professione fino a tre mesi”.

Il comma 1 dell’articolo 115 Cpp specifica che “salve le sanzioni previste dalla legge penale [684 Cp], la violazione del divieto di pubblicazione previsto dagli articoli 114 e 329 (comma 3 lettera b) del Cpp costituisce illecito disciplinare quando il fatto è commesso da impiegati dello Stato o di altri enti pubblici ovvero da persone esercenti una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato”. Solo i giornalisti professionisti esercitano la professione di giornalista: sono tali, infatti, in quanto hanno superato l’esame di Stato previsto dall’articolo 33 (V comma) della Costituzione e dall’articolo 32 della legge n. 69/1963. Conseguentemente la norma esclude sanzioni disciplinari per i pubblicisti (coloro che, accanto a professioni diverse o ad altri impieghi, svolgono attività giornalistica “non occasionale”) e per i praticanti giornalisti.

La natura della sospensione è cautelare: cautelare significa che dovrebbe essere adottata mentre il procedimento penale è in atto. L’articolo 58 della legge 69/1963 sull’ordinamento della professione di giornalista impedisce al Consiglio dell’Ordine l’adozione di qualsiasi provvedimento prima della conclusione del processo penale. La nuova norma, pertanto, potrebbe essere inapplicabile, perché non è coordinata con l’articolo 58 citato. Questa lettura dell’articolo 58 della legge 69/1963 è stato rafforzata dalle sezioni unite civili della Cassazione con la sentenza n. 4893 depositata l’8 marzo 2006 (Fonti: Mass. Giur. It., 2006; CED Cassazione, 2006 ): “Per effetto della modifica dell’art. 653 cod. proc.pen. operata dall’art.1 della legge n. 97 del 2001 (norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche), applicabile in virtù della norma transitoria di cui all’art. 10 ai procedimenti in corso all’entrata in vigore della citata legge, l’efficacia di giudicato – nel giudizio disciplinare – della sentenza penale di assoluzione non è più limitata a quella dibattimentale ed è stata estesa, oltre alle ipotesi di assoluzione perché “il fatto non sussiste” e “l’imputato non l’ha commesso”, a quella del “fatto non costituisce reato”. Ne consegue che, qualora l’addebito disciplinare abbia ad oggetto i medesimi fatti contestati in sede penale, si impone, ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ., la sospensione del giudizio disciplinare in pendenza di quello penale, atteso che dalla definizione di quest’ultimo può dipendere la decisione del procedimento disciplinare.”

Pene più severe per i pubblici ufficiali “gole profonde” – I pubblici ufficiali che rivelano illecitamente il contenuto di intercettazioni, conversazioni o interrogatori di testimoni e imputati rischiano il carcere non più fino a un anno come accade oggi. Il ddl prevede una modifica al Cp per quanto riguarda l’articolo 379-bis (Rivelazione illecita di segreti inerenti a un procedimento penale). Così chiunque rivela indebitamente notizie inerenti ad atti del procedimento penale coperti dal segreto dei quali è venuto a conoscenza in ragione del proprio ufficio o servizio svolti in un procedimento penale, o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Il ddl 9 settembre 2005 del Governo Berlusconi prevedeva una rafforzamento dell’articolo 326 (rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio) del Cp nel senso che “se la rivelazione o la utilizzazione riguarda intercettazioni di comunicazioni o di conversazioni o il contenuto di queste, la pena è da 1 a 4 anni di reclusione” (mentre ancora oggi la semplice rivelazione di notizie d’ufficio, che devono rimanere segrete, comporta la reclusione da 6 mesi a tre anni). Questa volta il Governo Berlusconi IV ha optato per l’articolo 379-bis, che meglio inquadra i pubblici ufficiali ciarlieri.

Sanzioni amministrative (da 25.800 a 465.000 euro) anche per l’impresa multimediale in relazione all’articolo 684 Cp. La salvezza (per le aziende) è l’adozione di un modello organizzativo, che preveda anche la formazione continua dei giornalisti. L’articolo 14 del ddl introduce, nel contesto del Dlgs n. 231/2001, la responsabilità amministrativa degli enti (in questo caso “imprese multimediali”) in relazione alla violazione dell’articolo 684 del Cp (Pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale). Si applica all’ente la sanzione pecuniaria da cento a trecento quote. L’importo di una quota va 258 a 1.550 euro. Le aziende potrebbero essere costrette a versare da un minimo di 25.800 euro fino a un massimo di 465.000 euro. Avranno un peso nella determinazione della sanzione le tirature dei giornali. “Non è ammesso il pagamento in misura ridotta” ( articolo 10 del dlgs 231/2001)..

Il Dlgs 231/2001 “disciplina la responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato. Le disposizioni in esso previste si applicano agli enti forniti di personalità giuridica e alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica. Non si applicano allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli altri enti pubblici non economici nonché agli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale”.

Se il reato è stato commesso da persone che rivestono funzioni di direzione dell’ente (come i direttori responsabili considerati dalla giurisprudenza dirigenti dell’azienda, ndr) o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia funzionale (è il caso delle redazioni giornalistiche rispetto al resto dell’impresa multimediale), l’ente non risponde se prova che l’organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi. In relazione all’estensione dei poteri delegati e al rischio di commissione dei reati, i modelli di organizzazione devono rispondere alle seguenti esigenze:

a) individuare le attività nel cui àmbito possono essere commessi reati;

b) prevedere specifici protocolli diretti a programmare la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente in relazione ai reati da prevenire.

Bisogna sottolineare che il dlgs 231/2001 già si applica alle società (e, quindi, alle aziende multimediali), ma per una serie di reati (soprattutto societari, abusi di mercato) ben più pesanti di quello previsto e punito dall’articolo 684 del Cp anche nella nuova versione del ddl “Alfano”. L’estensione della punibilità all’articolo 684 obbligherà le imprese multimediali ad assumere giornalisti professionisti qualificati (da percorsi universitari specifici) e a curare la formazione dei dipendenti giornalisti anche attraverso l’applicazione concreta dell’articolo 45 (aggiornamento culturale-professionale) del Cnlg.

Il Garante può bloccare le informazioni – Il Garante della privacy può “disporre il blocco” delle informazioni pubblicate in violazione della nuova legge e raccolte in maniera non corretta.

Il ruolo del Garante – L’articolo 17 del ddl modifica il “Testo unico sulla privacy” (dlgs 196/2003) e chiama in causa il Garante, che ha già, in virtù del punto 5 dell’articolo 139 vigente, il potere di “vietare il trattamento” di una data notizia che viola le “prescrizioni…in particolare per quanto riguarda i dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”. Il punto 3 dell’articolo 137 precisa che “in caso di diffusione o di comunicazione dei dati per le finalità giornalistiche (ex articolo 136, ndr) restano fermi i limiti del diritto di cronaca a tutela dei diritti di cui all’articolo 2 e, in particolare, quello dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico. Possono essere trattati i dati personali relativi a circostanze o fatti resi noti direttamente dagli interessati o attraverso loro comportamenti in pubblico”. Il primo comma dell’articolo 2 del dlgs 196/2003 stabilisce che “il presente testo unico, di seguito denominato «codice», garantisce che il trattamento dei dati personali si svolga nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, nonché della dignità dell’interessato, con particolare riferimento alla riservatezza, all’identità personale e al diritto alla protezione dei dati personali”.

Le altre prescrizioni – Il nuovo comma 5 dell’articolo 139 stringe vieppiù le maglie e ingabbia l’attività dei giornalisti in una rete di prescrizioni formalmente condivisibili: “In caso di violazione delle prescrizioni contenute nel Codice di deontologia o, comunque, delle disposizioni di cui agli articoli 11 e 137, il Garante può vietare il trattamento o disporne il blocco”. Il Codice di deontologia – come ha scritto l’Ufficio del Massimario della Cassazione nella relazione 5 luglio 2005 (www.cortedicassazione.it/Documenti/Relaz_tutela_privacy.doc) – stabilisce che chi esercita l’attività giornalistica o altra attività comunque riconducibile alla libera manifestazione del pensiero (inclusa l’espressione artistica e letteraria, come precisato dall’art. 136 del Codice) possa trattare dati personali anche prescindendo dal consenso dell’interessato e, con riferimento ai dati sensibili e giudiziari, senza una preventiva autorizzazione di legge o del Garante. In caso di diffusione o di comunicazione di dati, il giornalista è peraltro tenuto comunque a rispettare alcune condizioni (art. 137, comma 3): i limiti del diritto di cronaca e, in particolare, quello dell’essenzialità dell’informazione riguardo a fatti di interesse pubblico, e i principi previsti dal Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica. In ordine ai dati giudiziari, il codice deontologico, a sua volta, rinvia al principio di essenzialità dell’informazione, in modo da evitare riferimenti a congiunti o ad altri soggetti non interessati ai fatti. Il riferimento all’articolo 11 del dlgs 196/2003 significa che “1. I dati personali oggetto di trattamento sono: a) trattati in modo lecito e secondo correttezza; b) raccolti e registrati per scopi determinati, espliciti e legittimi, ed utilizzati in altre operazioni del trattamento in termini compatibili con tali scopi; c) esatti e, se necessario, aggiornati; d) pertinenti, completi e non eccedenti rispetto alle finalità per le quali sono raccolti o successivamente trattati; e) conservati in una forma che consenta l’identificazione dell’interessato per un periodo di tempo non superiore a quello necessario agli scopi per i quali essi sono stati raccolti o successivamente trattati. 2. I dati personali trattati in violazione della disciplina rilevante in materia di trattamento dei dati personali non possono essere utilizzati”. Il Garante “può vietare il trattamento o disporne il blocco”, quando il giornalista viola gli articoli non solo del Codice di deontologia ma anche gli articoli 11 e 137 del dlgs 196/2003. L’insieme delle violazioni – Questo insieme di riferimenti normativi fanno da cornice ai “divieti di pubblicazione” inseriti nel ddl. Le violazioni di cui parla il ddl, quindi, possono ferire la normativa sulla privacy e, quindi, possono determinare il Garante a “vietare il trattamento o a disporne il blocco”. Il comma e) dell’articolo 17 del ddl è una vea e propria norma di chiusura molto minacciosa (carcere per i trasgressori): “Chiunque, essendovi tenuto, non osserva il provvedimento adottato dal Garante ….è punito con la reclusione da tre mesi a due anni”. I provvedimenti del garante sono pubblicati gratuitamente (comma 5-ter dell’articolo 17) nel giornale che ha diffuso, contra legem, le intercettazioni o atti giudiziari secretati. La pubblicazione è a carico degli editori “colpevoli” se il Garante decide che la stessa sia fatta in altre testate.

La Corte di Strasburgo: “Prevale il diritto del pubblico a essere informati sui procedimenti giudiziari” – La Corte di Strasburgo dei diritti dell’uomo ha riconosciuto prevalenti il diritto della stampa di informare su indagini in corso e l’esigenza del pubblico di essere informato sui procedimenti giudiziari. La Corte di Strasburgo dei diritti dell’uomo, con la sentenza del 7 giugno 2007 (ricorso n. 1914/02- affaire Dupuis et autres c. France), ha riconosciuto prevalenti il diritto della stampa di informare su indagini in corso e l’esigenza del pubblico di essere informato sui procedimenti giudiziari. Conseguentemente ha sanzionato la Francia per violazione del diritto di espressione. Due giornalisti erano stati condannati a seguito della pubblicazione di un libro sul sistema di intercettazioni illegali attuato durante la Presidenza Mitterand. Nel libro figuravano stralci di interrogatori e brogliacci sulle intercettazioni. Sulle esigenze del segreto istruttorio prevale in sostanza il diritto di informare, soprattutto quando si tratta di fatti eclatanti e notori. Conta che i giornalisti agiscano nel rispetto delle regole deontologiche della professione, fornendo notizie ancorate al principio della verità sostanziale. Le sentenze della corte di Strasburgo sono vincolati per gli Stati membri della Ue e,quindi, anche per l’Italia. Il ddl “Alfano” è in netto contrasto in molti punti con la sentenza Dupuis. I giornalisti italiani, eventualmente condannati in base al ddl “Alfano”, potranno trovare a Strasburgo un giudice comprensivo delle loro ragioni. Si prefigura una lunga battaglia europea.
Franco Abruzzo

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