"Un monopolio è una cosa orrenda, finché non ne possiedi uno". C’è tutta l’essenza umana e professionale di Keith Rupert Murdoch, che domani compie 80 anni, in questa sua celebre battuta, ironica ma non troppo.
D’altronde, se c’è una qualità che anche i suoi detrattori (e non in questi decenni non sono mancati) devono riconoscere al magnate australiano – oggi cittadino americano – è stata quella di pensare in grande, osando l’inosabile. Come quando nel 1981 mise le mani – fra le proteste di Fleet Street – sui gioielli della stampa britannica, il ‘Times’ e il ‘Sunday Times’. Ma, sfruttando un’altra qualità, ovvero quella di spiazzare i suoi critici e i concorrenti, i due giornali non si sono ‘tabloidizzati’, anzi, a trent’anni di distanza sono sempre più il punto di riferimento del giornalismo di qualità. E, cosa che sta molto a cuore all’ottantenne magnate, hanno smesso di perdere soldi. Denaro e potere sembrano d’altronde il tratto distintivo dell’ascesa di Murdoch, che ha saputo trasformare il piccolo impero editoriale locale (suo padre, Sir Keith Murdoch possiedeva il quotidiano Adelaide News) in un colosso dei media globale, che spazia dalla carta stampata alle tv satellitari ed ha esteso la sua azione ai giornali via web, con ‘The Daily’, appena lanciato. Essendo diventato direttore del gruppo di famiglia a soli 22 anni, alla morte del padre (che lo costrinse a interrompere gli studi a Oxford), Murdoch conosce il mestiere ‘dall’interno’, ma rispetto agli altri editori australiani ha da subito mostrato una capacità di pensare in grande. Negli anni seguenti, l’elenco delle acquisizioni e delle nuove testate è impressionante: dal Sunday Times di Perth ai giornali locali in New South Wales, Queensland, Victoria, quindi nel 1964 il lancio dell’Australian, il primo giornale nazionale di qualità, e l’acquisto del neozelandese ‘Dominion’, prima acquisizione all’estero, venduta da Lord Thomson. Negli anni Sessanta e Settanta si afferma il ‘metodo Murdoch’, fatto di grandi numeri, scoop, stampa popolare e dialogo con la politica. Un sistema messo a punto in Australia e perfezionato in Gran Bretagna dove Murdoch era sbarcato nel 1969, con l’acquisto del ‘Sun’ e la sua successiva trasformazione in tabloid popolare. Quindi nel 1981 l’acquisizione del Times in piena era Thatcher, uno dei tanti premier con cui Murdoch ha intrattenuto un fitto rapporto (celebri e discussi i suoi summit segreti con Tony Blair). A Londra, infatti, sono ormai abituati a considerare il magnate dei media come un ‘interlocutore’ diretto del governo, capace di passare disinvoltamente da Tories a laburisti e viceversa: nelle ultime elezioni, il sostegno a David Cameron è stato esplicito così come in passato il dialogo intrattenuto con il suo predecessore a Downing Street, Gordon Brown. Fin qui la ‘carriera’ di un tycoon della carta stampata come molti altri: ma Rupert Murdoch ha una marcia in più che deriva dalla sua visione ‘globale’ e dall’attenzione allo sviluppo tecnologico. Nel 1986, l’introduzione dell’elettronica nei processi produttivi, con conseguenti tagli di personale e lunghi scioperi, quindi l’attenzione alla tv via satellite con la lunga (e costosa) avventura di Sky Television, che lo spinse all’acquisto del principale concorrente British Satellite Broadcasting. Il risultato, un mezzo monopolio con BSkyB, replicato anni dopo nel nostro mercato – per assenza di concorrenti – con Sky Italia, punto di arrivo dell’esperienza di TelePiù e Stream. Per raggiungere i suoi obiettivi, soprattutto nella tv, il magnate australiano è stato davvero disposto a tutto. Ad esempio, nel 1985 Murdoch chiese e ottenne la cittadinanza statunitense: un gesto non dettato da polemica con la natia Australia ma motivato dalla legislazione che negli Usa vietava agli stranieri il possesso di canali televisivi. Ma il ‘colpo’ più eclatante è stato forse quello messo a segno nel 2007, quando con una maxi-offerta da 5 miliardi di dollari lo ‘squalo’ è riuscito a convincere – sfruttando le divisioni al loro interno – i membri della famiglia Bancroft a vendergli il gruppo Dow Jones, editore del ‘Wall Street Journal’. Anche in questo caso, l’arrivo di Murdoch non ha provocato cali di qualità o di credibilità, ma perché l’investimento dia un ritorno economico servirà ancora molto tempo. A fornire cassa alla News Corp – terzo gruppo editoriale mondiale – provvedono le decine di società dell’impero, che vanno da Hollywood (20th Century Fox) a Pechino (Star Tv), passando per Lettonia, Germania e Isole Figi. Nella carriera dello ‘squalo’ Murdoch, ovviamente, non sono mancati i passi falsi: fra i più recenti la scommessa perduta di MySpace, pagato 580 milioni di dollari nel 2005 ma con i conti perennemente in rosso, eclissato dal successo di Facebook. Ma il traguardo degli 80 anni ripropone inevitabilmente per il proprietario di News Corp il nodo della successione, non facile da gestire con 6 figli e un impero così sfaccettato. Più potente di quanto faccia intendere il 122mo posto nella classifica dei miliardari redatta da Forbes, Rupert Murdoch è, insomma, un uomo solo al comando: molti dei suoi nemici – come Ted Turner, proprietario della Cnn – sono ormai alle spalle, e rivali alla sua altezza non se ne vedono. Il nodo a questo punto è trovare qualcuno cui passare il bastone del comando. E, senza una designazione ufficiale, lo spettro di una guerra fra fratelli (come la 42enne Elisabeth e il 40enne James) è qualcosa di più di una possibilità. (Adnkronos)