dalla newsletter del sito Franco Abruzzo.it
Rivista “Il diritto dell’informazione e dell’informatica” n. 4/2007
La commistione informazione/pubblicità nella giurisprudenza ordinaria e disciplinare
di Franco Abruzzo
INDICE
1. Premessa. La giurisprudenza in tema di commistione pubblicità/informazione elaborata a Milano.
2. Diritti e doveri del giornalista.
3. Bisogna evitare che un giornale si trasformi in un catalogo commerciale. Tribunale civile di Milano: “La pubblicità deve essere chiara, palese, esplicita e riconoscibile…. il lavoro giornalistico deve rimanere inconfondibile”.
4. Corte d’Appello di Milano: “Il direttore quantomeno deve rendere pubblico il proprio dissenso all’ufficio marketing”.
5. Gli articoli pubblicitari giustificano le dimissioni del giornalista, perché ledono la dignità professionale. L’inserimento di articoli di natura pubblicitaria in un periodico contro la volontà del condirettore può giustificare le dimissioni del giornalista con diritto all’indennità sostitutiva del preavviso per lesione della sua dignità professionale
6. Tribunale civile di Milano: “La pubblicità ingannevole è slealtà del giornalista”.
7. La prima sezione civile della Corte d’Appello di Milano conferma la sanzione inflitta dal Consiglio dell’Ordine di Milano: quando la pubblicità ingannevole si nasconde nell’invito dell’articolista a usare un determinato dentifricio.
8. Sentenza della seconda sezione civile della Corte d’Appello: corretto il titolo di Tabloid “Basta marchette, per favore”.
9. Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti di Milano: delibere su giornaliste “attrici pubblicitarie” e sui contenitori pubblicitari che mescolano inserzioni e articoli funzionali alle inserzioni.
10. Conclusioni. Corte d’Appello di Milano: “Il giornalista deve essere e deve apparire corretto”. Dalle sentenze dei giudici è possibile estrapolare un insieme di regole, che, se rispettate, potrebbero garantire la qualità dei mass media.
1. Premessa. La giurisprudenza in tema di commistione pubblicità/informazione elaborata a Milano.
Il fenomeno della commistione pubblicità/informazione è stato denunciato, nel novembre 1986, con una delibera del Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti di Milano. Quelle regole sono diventate due anni dopo l’articolo 44 del Cnlg: “Allo scopo di tutelare il diritto del pubblico a ricevere una corretta informazione, distinta e distinguibile dal messaggio pubblicitario e non lesiva degli interessi dei singoli, i messaggi pubblicitari devono essere chiaramente individuabili come tali e quindi distinti, anche attraverso apposita indicazione, dai testi giornalistici”. Incalza l’articolo 23 del Dlgs 6 settembre 2005 n. 206 (Codice del consumo), che ha sostituito sul punto il Dlgs 74/1992: “La pubblicità deve essere chiaramente riconoscibile come tale. La pubblicità a mezzo di stampa deve essere distinguibile dalle altre forme di comunicazione al pubblico, con modalità grafiche di evidente percezione”. “La pubblicità televisiva e radiofonica deve essere riconoscibile come tale ed essere distinta dal resto dei programmi con mezzi ottici o acustici di evidente percezione” afferma l’articolo 8 della legge 223/1990 (“legge Mammì”). “La pubblicità deve essere palese, veritiera e corretta” ribadisce l’articolo 1 (punto 2) del Dlgs 145/2007. Gli articoli 2 e 48 della legge professionale 69/1963 impegnano i giornalisti ad essere e ad apparire corretti, a non ingannare il pubblico, ad essere leali. L’apporto dell’Ordine di Milano al dibattito è stato sottolineato, come vedremo, dalla Quarta sezione civile del Tribunale di Milano (sentenza 23 marzo 2000).
Dal 1986 ad oggi, quindi, il Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia ha fornito un contributo forte alla costruzione della giurisprudenza in tema di commistione pubblicità/informazione. L’obiettivo era quello di tutelare l’interesse generale, che coincide con lo svolgimento corretto e autonomo della professione giornalistica. Si legge nella sentenza n. 11/1968 della Corte costituzionale:
«La Corte ritiene, del pari, che i poteri disciplinari conferiti ai Consigli (dell’Ordine dei Giornalisti) non siano tali da compromettere la libertà degli iscritti. Due elementi fondamentali vanno tenuti ben presenti: la struttura democratica dei Consigli, che di per sé rappresenta una garanzia istituzionale non certo assicurata dalla legge precedentemente in vigore (D.L.Lgt. 23 ottobre 1944, n. 302), in base alla quale la tenuta degli Albi e la disciplina degli iscritti sono state affidate per circa venti anni ad un organo di nomina governativa, e la possibilità del ricorso al Consiglio nazionale ed il successivo esperimento dell’azione giudiziaria nei vari gradi di giurisdizione. L’uno e l’altro concorrono sicuramente ad impedire che l’iscritto sia colpito da provvedimenti arbitrari. Essi, tuttavia, non sarebbero sufficienti a raggiungere tale scopo, se la legge stessa prevedesse, sia pure implicitamente, una responsabilità del giornalista a causa del contenuto dei suoi scritti, e ammettesse una corrispondente possibilità di sanzione, perché in tal caso la libertà riconosciuta dall’articolo 21 sarebbe messa in pericolo e l’art. 45 – norma di chiusura dell’intero ordinamento giornalistico – risulterebbe illegittimo. Ma la legge non consente affatto una qualsiasi forma di sindacato di tale natura. Se la definizione degli illeciti disciplinari, com’è inevitabile, non si articola in una previsione di fattispecie tipiche, bisogna pur considerare che la materia trova un preciso limite nel principio fondamentale enunciato dalla stessa legge nell’art. 2. Se la libertà di informazione e di critica è insopprimibile, bisogna convenire che quel precetto, più che il contenuto di un semplice diritto, descrive la funzione stessa del libero giornalista: è il venire meno ad essa, giammai l’esercitarla, che può compromettere quel decoro e quella dignità sui quali l’Ordine è chiamato a vigilare».
La responsabilità del direttore emerge anche dalla legge 633/1941: il direttore è, infatti, “autore dell’opera collettiva dell’ingegno”, che è il giornale o il periodico. Il Consiglio osserva che un giornalista, sia redattore o direttore, non può ignorare le norme sancite dal legislatore a tutela dei consumatori (e dei lettori) e soprattutto il principio che “la pubblicità deve essere palese, veritiera e corretta” (norma scritta nell’abrogato Dlgs 74/1992 ed ora recuperata nel Dlgs 145/2007). Il direttore è da considerare responsabile della correttezza del messaggio pubblicitario in quanto, come ha stabilito il Consiglio, “è tenuto per legge a controllare (anche) i testi pubblicitari” che appaiono sul giornale al fine, come nei casi condannati dall’Antitrust, di evitare che i lettori siano ingannati dai messaggi pubblicitari spacciati in maniera truffaldine per articoli. Questo comportamento è un tradimento della professione giornalistica.
Pertanto commette illecito disciplinare il direttore che avalli copertine o articoli pubblicitari. “Costituisce illecito disciplinare, in quanto contrario al prescritto dovere di lealtà nell’informazione, il comportamento del direttore responsabile di un periodico, che avalli la pubblicazione di una copertina e di articoli dotati di contenuto pubblicitario non chiaramente differenziato rispetto al dato informativo” (Trib. Milano, 11 febbraio 1999; Parti in causa Monti c. Consiglio reg. ord. giornalisti Lombardia; Riviste: Foro It., 1999, I, 3083 Rif. legislativi: L 3 febbraio 1963 n. 69, art. 2; L 3 febbraio 1963 n. 69, art. 48).
Il principio trova conferma nella giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. sez. III civ. 20 ottobre 2006, n. 22535) per la quale il direttore di un giornale deve evitare la commistione tra informazione e pubblicità in base alla legge e al contratto collettivo. L’obbligo del direttore del giornale di garantire la correttezza e la qualità dell’informazione anche per quanto concerne il rapporto fra testo e pubblicità – ha affermato la Corte – deriva dagli artt. 44 CCNL giornalisti e 4 Dlgs 74/1992; il contenuto dell’obbligo è di rendere la pubblicità chiaramente riconoscibile come tale mediante l’adozione di modalità grafiche di evidente percezione; lo scopo è di tutelare dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali. La fascia dei soggetti tutelati – ha aggiunto la Corte – si estende a tutti i lettori senza alcuna distinzione in base al grado di cultura; può, in sostanza, affermarsi che il direttore di giornale deve garantire la correttezza e la qualità dell’informazione; a questo fine è tenuto a verificare se la pubblicità sia chiaramente riconoscibile come tale, distinguendosi da ogni altra forma di comunicazione al pubblico mediante modalità grafiche facilmente riconoscibili; in tale verifica non rileva il grado di cultura dei lettori, essendo a tutti accordata tutela; ove la verifica conduca a risultati negativi, il direttore deve impedire la pubblicazione del testo contenente la pubblicità, incorrendo altrimenti nelle sanzioni comminate dalla legge n. 69/1963.
2. Diritti e doveri del giornalista
I diritti e i doveri del giornalista sono fissati nell’articolo 2 della legge n. 69/1963: “E’ diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d’informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede. Devono essere rettificate le notizie che risultino inesatte, e riparati gli eventuali errori. Giornalisti e editori sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse, e a promuovere lo spirito di collaborazione tra colleghi, la cooperazione fra giornalisti e editori, e la fiducia tra la stampa e i lettori”. E’ una norma in bianco ovvero un ombrello ampio sotto il quale oggi operano le carte deontologiche (Treviso, informazione economica, privacy, etc). La Cassazione ha sancito che le regole deontologiche hanno “natura giuridica” (Cass., sez. un., 6 giugno 2002, n. 8225), allargando successivamente la sua visione sulla materia: “Secondo un indirizzo che si va delineando nella giurisprudenza di questa Corte, nell’ambito della violazione di legge va compresa anche la violazione delle norme dei Codici deontologici degli Ordini professionali, trattandosi di norme giuridiche obbligatorie valevoli per gli iscritti all’Albo ma che integrano il diritto oggettivo ai fini della configurazione dell’illecito disciplinare” (cass., sez. un., 23 marzo 2004 n. 5776). In precedenza la sentenza n. 7543 del 9 luglio 1991 (Mass. 1991) della Cassazione civile aveva riconosciuto che “la fissazione di norme interne, individuatrici di comportamenti contrari al decoro professionale, ancorché non integranti abusi o mancanze, configura legittimo esercizio dei poteri affidati agli Ordini professionali, con la consequenziale irrogabilità, in caso di inosservanza, di sanzione disciplinare”.
2.1. I cardini deontologici della legge professionale.
La legge professionale detta vincoli fondamentali per l’attività giornalistica, impegnando il giornalista a essere e ad apparire corretto. Questi i principi che si ricavano dagli articoli 2 e 48 della legge n. 69/1963:
a) la libertà di informazione e di critica (valori che fanno definire il giornalismo informazione critica) come diritto insopprimibile dei giornalisti;
b) la tutela della persona umana e il rispetto della verità sostanziale dei fatti principi da intendere come limiti alle libertà di informazione e di critica. Il cronista è stato definito da Umberto Eco “storico dell’istante o del presente” e come lo storico deve accertare i fatti, parlando con i protagonisti del fatti e scavando nei fatti per far emergere una versione dei fatti la più vicina alla verità sostanziale pretesa dalla legge: “L’esercizio del diritto di informazione garantito nel nostro ordinamento deve, ove leda l’altrui reputazione, sopportare i limiti seguenti: a) l’interesse che i fatti narrati rivestano per l’opinione pubblica, secondo il principio della pertinenza; b) la correttezza dell’esposizione di tali fatti in modo che siano evitate gratuite aggressioni all’altrui reputazione, secondo il principio della continenza; c) la corrispondenza rigorosa tra i fatti accaduti e i fatti narrati, secondo il principio della verità: quest’ultimo comporta l’obbligo del giornalista (come quello dello storico) dell’accertamento della verità della notizia e il controllo dell’attendibilità della fonte” (Cass. pen., 5 maggio 1997, n. 2113 in Riv. pen.1997, 973); “Affinché la divulgazione a mezzo stampa di notizie lesive dell’onore possa considerarsi lecito esercizio del diritto di cronaca, devono ricorrere le seguenti condizioni: la verità oggettiva della notizia pubblicata; l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto (cosiddetta: pertinenza) e la correttezza formale dell’esposizione (cosiddetta: continenza). La condizione della verità della notizia comporta, come inevitabile corollario, l’obbligo del giornalista, non solo di controllare l’attendibilità della fonte (non sussistendo fonti informative privilegiate), ma anche di accertare e di rispettare la verità sostanziale dei fatti oggetto della notizia (non scalfita peraltro da inesattezze secondarie o marginali, inidonee a determinarne o ad aggravarne la valenza diffamatoria); con la conseguenza che, solo se tale obbligo sia stato scrupolosamente osservato, potrà essere utilmente invocata l’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca, restando peraltro escluso che, ove le suddette condizioni non ricorrano, l’equilibrio generale dell’articolo giornalistico escluda la natura diffamatoria dei fatti riferiti, potendo eventualmente comportare una minore gravità della diffamazione ed incidere quindi sulla liquidazione del danno”. (Cass. civ. Sez. III 04-07-1997, n. 6041; Soc. Il Messaggero c. Vitalone).
c) l’esercizio delle libertà di informazione e di critica ancorato ai doveri imposti dalla buona fede e dalla lealtà: “Nel campo degli illeciti a mezzo stampa, la buona fede del giornalista, necessaria ad integrare l’esimente della verità putativa, richiede non solo la verosimiglianza della notizia, oggettivamente falsa, ma anche il controllo della fonte di provenienza e della sua attendibilità; accertamento – quest’ultimo – che il giornalista, agli effetti dell’esimente in questione, non deve mai omettere, neppure per il convincimento, proprio o della pubblica opinione, della verità della notizia o per l’esigenza della speditezza dell’informazione. La buona fede del giornalista deve essere, tuttavia, esclusa allorquando, nel controllo della notizia (doveroso anche ai sensi del comma 1 dell’art. 2 l. 3 febbraio 1963 n. 69, sul relativo ordinamento professionale, che impone al giornalista l’obbligo inderogabile di rispettare la verità sostanziale dei fatti, nonché i doveri di lealtà e buona fede), egli abbia agito con negligenza (ovvero imperizia o imprudenza). L’indagine a ciò relativa comporta accertamenti di fatto e, pertanto, è rimessa al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità, se adeguatamente motivata ed immune da vizi logici e giuridici”. (Cass. civ. sez.III 20-08-1997, n. 7747; Gibilisco c. Soc. Terme di Crodo)
d) il dovere di rettificare le notizie inesatte;
e) il dovere di riparare gli eventuali errori;
f) il rispetto del segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse;
g) il dovere di promuovere la fiducia tra la stampa e i lettori;
h) il mantenimento del decoro e della dignità professionali;
i) il rispetto della propria reputazione;
l) il rispetto della dignità dell’Ordine professionale;
m) il dovere di promozione dello spirito di collaborazione tra i colleghi;
n) il dovere di promozione della cooperazione tra giornalisti ed editori.
2.2. Procedimento disciplinare.
L’apertura è prevista dall’articolo 48 della legge n. 69/1963: “Gli iscritti nell’Albo, negli elenchi o nel registro che si rendano colpevoli di fatti non conformi al decoro e alla dignità professionale, o di fatti che compromettano la propria reputazione o la dignità dell’Ordine, sono sottoposti a procedimento disciplinare. Il procedimento disciplinare è iniziato d’ufficio dal Consiglio regionale o interregionale, o anche su richiesta del procuratore generale competente ai sensi dell’articolo 44”. Il potere riconosciuto al Pg di “impulso” significa solo che c’è un interesse pubblico affinché la professione giornalistica si svolga in termini corretti.
2.3. Sanzioni disciplinari.
Sono fissate nell’articolo 51 della legge n. 69/1963. Le sanzioni disciplinari sono pronunciate con decisione motivata dal Consiglio, previa audizione dell’incolpato. Esse sono: a) l’avvertimento; b) la censura; c) la sospensione dall’esercizio della professione per un periodo non inferiore a due mesi e non superiore ad un anno; d) la radiazione dall’Albo.
3. Bisogna evitare che un giornale si trasformi in un catalogo commerciale. Tribunale civile di Milano (che sottolinea il lavoro svolto dall’Ordine dei Giornalisti di Milano sul punto): “La pubblicità deve essere chiara, palese, esplicita e riconoscibile…. il lavoro giornalistico deve rimanere inconfondibile”.
Particolarmente significativa una decisione del Tribunale civile di Milano (sentenza 23 marzo 2000, che conferma una delibera dell’Ordine della Lombardia, condivisa dal Consiglio nazionale, in tema di commistione pubblicità-informazione):
“(Il Tribunale) osserva, infatti, che il rispetto del principio della necessaria separazione tra informazione e pubblicità é stato più volte sollecitato dal Consiglio regionale della Lombardia, sia per evitare che un giornale si trasformi in un catalogo commerciale, sia per tutelare il cittadino che ha diritto ad una corretta informazione che gli consenta di riconoscere quali notizie, servizi ed altre attività redazionali appartengono alla responsabilità della redazione o del singolo giornalista e quali, invece, siano diretta espressione di altri enti o aziende: la pubblicità deve essere chiara, palese, esplicita e riconoscibile, soprattutto la c.d. pubblicità redazionale: la lealtà verso il lettore impone che il lavoro giornalistico e quello pubblicitario rimangano separati ed inconfondibili: qualsiasi forma di pubblicità occulta diventa un inganno per il lettore ed una forma degenerativa della qualità dell’informazione (delibera di indirizzo del Consiglio Lombardo): la comunicazione pubblicitaria persuasiva o suggestiva è caratterizzata dall’assenza di quella neutralità che rappresenta, invece, il primo requisito richiesto all’informazione obbiettiva: il messaggio pubblicitario sviluppa una sorta di difesa naturale da parte del lettore che, invece, non è preparato a contrapporre la propria capacità critica ai segnali ricevuti da una fonte riconosciuta come neutrale quale deve essere l’articolo giornalistico.
Un primo riconoscimento testuale ed esplicito in sede legislativa del divieto di pubblicità occulta si trova nell’art. 8, comma secondo della legge 6/8/90 n. 223, dove si legge che la pubblicità televisiva e radiofonica deve essere riconoscibile come tale ed essere distinta dal resto dei programmi con mezzi ottici o acustici di evidente percezione; il Dlgs 25/1192, n. 74, con le sue definizioni alle quali qui si fa rinvio per brevità, ha lo scopo di tutelare dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali, in genere, gli interessi del pubblico nella fruizione di messaggi pubblicitari; l’art. 7 del Codice di autodisciplina pubblicitaria prevede la necessaria identificazione della pubblicità.
Di fronte ad un testo apparentemente informativo ed in assenza di un dimostrato rapporto di committenza tra autore dei testo ed impresa, occorre accertare, in via presuntiva, la presenza di elementi gravi precisi e concordanti che concorrano a stabilirne il contenuto promozionale; in caso positivo occorre verificare la sussistenza dei requisiti di evidente percezione idonei a rivelare immediatamente la natura promozionale del testo medesimo; la mancanza di detti requisiti consente di qualificare il messaggio come ingannevole.
L’indagine relativa ad un articolo collocato in una rubrica dedicata alla salute ed alla bellezza contenente specifici riferimenti, anche fotografici, a determinati prodotti, nonché ad un inserto recante consigli sull’igiene orale accompagnati dall’indicazione dei prodotti da prediligere con relativa documentazione fotografica, é già stata conclusa con la qualifica di messaggio ingannevole nel Provv. n. 3618 dei 15/2/96 dell’Antitrust”.
4. Corte d’Appello di Milano: “Il direttore quantomeno deve rendere pubblico il proprio dissenso all’ufficio marketing”.
La sentenza n. 1827/2003 della prima sezione civile della Corte d’appello di Milano ha confermato la sanzione inflitta il 10 novembre 1996 dall’Ordine di Milano, il 20 marzo 2002 dall’Ordine nazionale e poi il 24 ottobre 2002 dal Tribunale civile di Milano nei riguardi del direttore responsabile di “Starbene” (Mondadori). In sostanza la Corte d’Appello ha affermato la responsabilità soggettiva del direttore per culpa in vigilando in merito a due casi di pubblicità ingannevole (con riferimento a due inserti della Bayer inseriti nei numeri 26 e 27/1996 della rivista Starbene). “Il direttore quantomeno avrebbe potuto evidenziare – scrivono i giudici – il proprio dissenso all’ufficio marketing, già in relazione al numero 26 ed a maggior ragione laddove l’episodio si ripeteva con il n. 27 (della rivista Starbene), essendo fatto grave che un direttore responsabile tolleri che nella pubblicazione da lui diretta siano inseriti, non solo dépliants separatamente aggiunti, ma anche pagine che vadano a formare un corpo unico con la rivista stessa, senza esercitare in alcun modo quel controllo che il ruolo svolto rigorosamente impone. Il direttore avrebbe avuto l’onere di intervenire presso l’editore e/o presso l’ufficio marketing e/o presso l’ufficio diffusione periodici, con un ventaglio di possibilità, che andavano dalla richiesta più drastica di bloccare la distribuzione a quella più lieve di semplice segnalazione del proprio dissenso. Al contrario non ha ritenuto di intervenire in alcun modo ed in questa inerzia non può che ravvisarsi una sua grave omissione. Né poteva legittimamente temere di esporsi in modo pericoloso nei confronti dell’editore (dato e non concesso che un simile timore rappresenti un’esimente o un’attenuante alla propria responsabilità) posto che nei suoi confronti avrebbe avuto facile gioco limitandosi a rappresentare le già ricevute proteste della redazione e del fiduciario sindacale”.
5. Gli articoli pubblicitari giustificano le dimissioni del giornalista, perché ledono la dignità professionale. L’inserimento di articoli di natura pubblicitaria in un periodico contro la volontà del condirettore può giustificare le dimissioni del giornalista con diritto all’indennità sostitutiva del preavviso per lesione della sua dignità professionale (Cassazione, sezione lavoro, n. 5790 dell’11 giugno 1999).
Un giornalista professionista ha lavorato alle dipendenze di una società editrice milanese come condirettore responsabile di una rivista indirizzata al pubblico televisivo con mansioni di direzione esecutiva, comprendente la scelta degli argomenti da trattare e degli articoli da pubblicare, essendo il compito del direttore responsabile limitato ad una supervisione di carattere generale svolta dopo il completamento di ogni numero del periodico. Egli è entrato in contrasto con l’ufficio pubblicità della casa editrice in quanto si è opposto alla pubblicazione di articoli commissionati da case produttrici di apparecchiature, aventi sostanzialmente natura pubblicitaria.
Peraltro, in occasione di una sua assenza per ferie, il direttore responsabile ha consentito la pubblicazione di due articoli di questo genere, aderendo a richieste dell’ufficio pubblicità.
A causa di tale episodio il giornalista si è dimesso, chiedendo il pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso, in base agli articoli 44, 27 e 32 del Contratto nazionale di lavoro giornalistico. L’articolo 44 stabilisce la netta separazione tra pubblicità e informazione. Gli articoli 27 e 32 riconoscono al giornalista il diritto di percepire l’indennità sostitutiva del preavviso in caso di dimissioni per fatti che abbiano determinato una situazione incompatibile per la sua dignità professionale, dei quali sia responsabile l’editore. Ne è seguita una causa davanti al Pretore di Monza, che ha condannato l’azienda al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso. Questa decisione è stata confermata, in grado di appello, dal Tribunale di Monza, che ha rigettato l’impugnazione proposta dall’azienda in base alle seguenti considerazioni:
– erano risultate provate le ingerenze dell’ufficio pubblicità nella pubblicazione di articoli, ingerenze intensificatesi nei mesi estivi del 1989, e cioè in un periodo in cui il giornalista. non aveva alcuna possibilità di reazione: secondo un teste vi erano state precise e pressanti indicazioni sui modelli da pubblicare nei mesi di luglio, agosto e settembre; secondo un altro teste in quell’occasione le pressioni erano giunte alla vera e propria imposizione di un modello non condiviso;
– tali intromissioni, ed in particolare quelle verificatesi durante il periodo estivo, dovevano ritenersi lesive della dignità del lavoratore;
– doveva escludersi, sulla base della documentazione prodotta e delle testimonianze acquisite, che a fronte della posizione del direttore responsabile, il condirettore non avesse alcun potere di decidere il contenuto della rivista; egli era invece totalmente autonomo nella scelta degli articoli, ed aveva quindi il diritto di opporsi alle pressioni dell’ufficio pubblicità, avendo il direttore la sola responsabilità legale e amministrativa del giornale;
– le ingerenze denunziate con la lettera di dimissioni integravano quindi una giusta causa di recesso.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 5790 dell’11 maggio 1999) ha rigettato il ricorso della casa editrice in quanto ha ritenuto che il Tribunale abbia adeguatamente motivato la sua decisione accertando in particolare che il giornalista aveva ampia autonomia nella scelta degli articoli da pubblicare e che pertanto il comportamento dell’Ufficio Pubblicità aveva costituito un’indebita interferenza, lesiva della sua dignità professionale.
6. Tribunale di Milano: “La pubblicità ingannevole è slealtà del giornalista”.
Chi pubblica articoli, che nella sostanza sono pubblicità ingannevole, tiene un comportamento che “viola quel principio di lealtà nell’informazione cui (ex artt. 2 e 48 della legge professionale n. 69/1963) devono essere improntati i comportamenti del giornalista”. Con questa secca motivazione la quinta sezione del Tribunale civile di Milano (17 settembre 2001) ha confermato la decisione del Consiglio nazionale che ha inflitto la sanzione disciplinare dell’avvertimento scritto a una giornalista professionista collaboratrice di “Oggi”. La stessa ha pubblicato sul numero dell’11 ottobre 1995 di “Oggi” l’articolo “E lavarsi i denti è un gioco” nel quale la giornalista “non si limita a dare consigli per una più corretta igiene orale dei bambini, eventualmente segnalando ai lettori le novità presenti sul mercato dando così un corretto carattere divulgativo all’articolo, ma reclamizza in modo indiretto i prodotti della linea Mentadent. L’articolo è stato corredato da un foto che mette in evidenza in primo piano il dentifricio Mentadent e sullo sfondo tre spazzolini da denti a forma di ometti che stanno in piedi ed un ulteriore tubo di dentifricio, il tutto sempre della Mentadent pure in posizione verticale”.
La decisione del Consiglio nazionale a sua volta aveva confermato quella del Consiglio dell’Ordine della Lombardia. La sentenza (n. 8010/2001) è stata adottata dal tribunale integrato da due giornalisti come giudici aggregati. Questi i passaggi centrali della sentenza:
Non vi è dubbio che l’articolo redatto dalla giornalista “E lavarsi i denti è un gioco” integri gli estremi della cosiddetta pubblicità ingannevole ai sensi degli arti. 1, comma 2.2, lettera b), ed in violazione dell’art. 4 comma 1 del Decreto Legislativo 25 gennaio 1992 n. 74 poiché in detto articolo la giornalista non si limita a dare consigli per una più corretta igiene orale dei bambini, eventualmente segnalando ai lettori le novità presenti sul mercato dando così un corretto carattere divulgativo all’articolo, ma reclamizza in modo indiretto i prodotti della linea Mentadent laddove scrive: ..” poi un bel giorno, regalategli il SUO spazzolino, e il SUO dentifricio per esempio della linea Mentadent denti in Crescita studiata per i più piccoli..”. Detto articolo è stato altresì corredato da un foto che mette in evidenza in primo piano il dentifricio Mentadent e sullo sfondo tre spazzolini da denti a forma di ometti che stanno in piedi ed un ulteriore tubo di dentifricio – il tutto sempre della Mentadent – pure in posizione verticale.
Con l’articolo in questione dunque si reclamizzano i prodotti della linea Mentadent per bambini, con un aspetto informativo, ingannando il lettore sulla reale portata promozionale del testo che è inserito nell’ambito di una pagina dedicata alla “bellezza”, e graficamente circoscritto da un bordo a pallini che non può essere considerato idoneo ad attribuire natura pubblicitaria a detto inserto, poiché la suddetta connotazione grafica viene utilizzata nella stessa pagina anche per un altro articolo “C’è anche il dentifricio alla propoli”.
Tale comportamento viola quel principio di lealtà nell’informazione cui ex artt. 2 e 48 legge n. 69/1963 devono essere improntati i comportamenti del giornalista. Va, quindi, confermata la decisione 3 novembre 1999) del Consiglio nazionale che, facendo proprio la delibera dell’Ordine di Milano, ha inflitto la sanzione disciplinare dell’avvertimento scritto.
7. La prima sezione civile della Corte d’Appello di Milano conferma la sanzione inflitta dal Consiglio dell’Ordine di Milano: quando la pubblicità ingannevole si nasconde nell’invito dell’articolista a usare un determinato dentifricio.
La rivista “Oggi” pubblicava a pag. 116 del numero 41 dell’ 11 ottobre 1995, nel contesto della rubrica “Salute”, e della sotto-rubrica “Bellezza”, un articolo dal titolo “I quattro segreti della perfetta igiene orale”, accompagnato da due inserti collocati in riquadri delimitati da un bordo colorato a pallini, l’uno recante il titolo “C’è anche il dentifricio alla propoli” e l’altro intitolato “E lavarsi i denti diventa un gioco”, quest’ultimo del seguente tenore letterale: “Piccoli segreti per «iniziare» i più piccini all’igiene orale. Cominciate con l’abituarli a sciacquarsi la bocca dopo aver mangiato un dolcino o una caramella. E puntate sul loro istinto di imitazione. Incuriositeli facendoli assistere sempre, alla fine di ogni pasto, alla vostra «operazione igiene orale». Poi, un bel giorno, regalategli il SUO spazzolino e il SUO dentifricio, per esempio della linea Mentadent denti in crescita, studiata per i più piccoli”.
A lato del testo di quest’ultimo inserto risultava apposta un’immagine fotografica raffigurante tre spazzolini a forma di pupazzetti in piedi e due tubetti di dentifricio, uno in piedi ed uno orizzontale, tutti recanti la scritta “MENTADENT”. Sotto l’immagine vi era la didascalia: “Linea orale per bambini”.
Il Consiglio regionale dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia, assunte le informazioni del caso, promuoveva procedimento disciplinare nei confronti sia della giornalista autrice dell’articolo e degli inserti (caso trattato nel punto 6 per quanto riguardo il primo grado giurisdizionale a carico della giornalista) sia del direttore della rivista (posizione che ha avuto un percorso autonomo nel primo grado giurisdizionale) per violazione delle norme deontologiche di cui agli artt. 2 e 48 della legge professionale 3 febbraio 1963, n. 69, rispettivamente nella parte in cui l’una impegna i giornalisti a promuovere la fiducia dei lettori nella stampa, e l’altro vieta i comportamenti atti a compromettere reputazione e dignità dell’Ordine, o non conformi alla dignità ed al decoro professionale; ciò sul presupposto che nel caso concreto fosse stata posta in essere una fattispecie di pubblicità redazionale ingannevole (ex artt. 1, secondo comma, e 2, lettera b, Dlgs n. 74/1992) indirizzata a promuovere con tono suadente, non in modo palese e riconoscibile, in un ambito apparentemente informale e didascalico, la vendita di un prodotto commerciale.
All’esito del procedimento disciplinare, esperita la fase istruttoria, veniva inflitta ai due incolpati, con provvedimento emesso in data 9 settembre 1996, la sanzione dell’avvertimento scritto (ex art. 52 della legge n. 69/1963), che, veniva confermato anche dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti con delibera assunta in data 3.11.1999.
Avverso la stessa delibera i due giornalisti proponevano separati ricorsi avanti al Tribunale di Milano, che li rigettava con sentenza n. 4031 in data 23/30 marzo 2000.
Impugnata tale decisione, la Corte d’Appello di Milano ha rigettato l’impugnativa del direttore con sentenza (ormai definitiva) n. 2473 del 20.9/13.10.2000 e successivamente quella della redattrice/articolista..
Non sembra davvero discutibile che la giornalista fosse, o comunque dovesse essere, ben consapevole del carattere pubblicitario ingannevole del suo articolo oltre che del fatto che di conseguenza, potesse risultarne incrinato il rapporto fiduciario con i lettori e compromessi il decoro e la dignità della professione.
Quanto alla conoscenza (implicita) del carattere pubblicitario dell’articolo, è appena il caso di rimarcare che tale carattere non è seriamente discutibile visto che, invitando i lettori a far uso (ovviamente previamente acquistandoli) di alcuni prodotti della linea “MENTADENT”, la giornalista null’altro faceva che reclamizzarli, e sarebbe del tutto incongruo ipotizzare che di tale finalità pubblicitaria fosse inconsapevole proprio la giornalista che intendeva perseguirla.
La ricorrente ha peraltro esplicitamente dichiarato, nel corso dell’istruttoria esperita in fase disciplinare, di aver impostato lei stessa l’intera pagina, e di aver fornito lei stessa la foto posta a lato dell’articolo, ammettendo di ben sapere che sarebbe stata pubblicata; foto il cui carattere pubblicitario non solo è del tutto evidente, visto che in essa erano raffigurati i prodotti “MENTADENT”, ma emerge per il fatto stesso che si trattava di una foto evidentemente realizzata o commissionata dalla stessa azienda produttrice.
La ricorrente, peraltro, pur assumendo in tesi che la natura del suo articolo fosse esclusivamente informativa, ha argomentato anche che, qualora si fosse davvero trattato in casu di una promozione pubblicitaria, nulla avrebbe dimostrato che essa non fosse del tutto palese e invece occulta o ingannevole, e questa tesi subordinata ella ha peraltro prospettato anche con riferimento alle altre censure formulate avverso la parte motiva della gravata pronuncia.
Riguardo a questo profilo – che nell’ottica del gravame avrebbe rilievo assorbente – la Corte non può che richiamare, facendolo proprio, quanto è stato già statuito con propria sentenza n. 2473 del 2000 con cui è stata respinta l’analoga impugnativa proposta dal direttore della rivista “OggI”.
Si è ivi osservato che il testo dell’inserto in questione solo nella prima parte – come gli altri articoli collocati nella stessa pagina, di cui era parimenti autrice la giornalista – aveva carattere divulgativo di nozioni utili per assicurare l’igiene orale, mentre laddove invitava all’uso (e quindi ancor prima all’acquisto) dei prodotti “MENTADENT” menzionati nel testo, e poi anche raffigurati nella fotografia d’accompagnamento, non forniva alcuna informazione sulle qualità e caratteristiche di essi, limitandosi a nominare, con tono suadente, i prodotti medesimi, e quindi a reclamizzarli. Se è vero poi che gli spazzolini raffigurati nella fotografia presentavano la peculiarità di essere inseriti su un piccolo piedistallo, che consentiva il loro appoggio “in piedi”, è altrettanto vero che della peculiarità stessa non vi era alcuna menzione nell’articolo e, comunque, i tubetti di dentifricio – prodotto di cui pure si parlava nel testo – nella fotografia non presentavano alcuna peculiarità di cui potesse ipotizzarsi l’utilità di divulgazione tra il pubblico dei lettori-consumatori.
Allo stesso modo l’invito all’uso dei prodotti “MENTADENT” non è stato accompagnato da nessuna motivazione atto a giustificarlo, eventualmente mediante confronto con altri prodotti.
Si è trattato, dunque, come ha giustamente ritenuto il Tribunale, senz’altro di un messaggio pubblicitario, perdippiù ingannevole in quanto, in concreto, percepibile come tale con difficoltà dal pubblico dei lettori, proprio in quanto inserito senza alcuna avvertenza – e quindi surrettiziamente, ingannevolmente – nel contesto di articoli di carattere informativo.
Non è dubbio infatti che la prima parte dell’articolo in discussione, quanto gli altri articoli della stessa pagina, avessero carattere e finalità dichiaratamente informative e non promozionali.
I caratteri grafici dell’inserzione, di cui è stata accertata la natura meramente pubblicitaria, erano gli stessi impiegati per le informazioni fornite nella stessa e nelle altre pagine della rivista ed erano differenti da quelli utilizzati per le inserzioni scopertamente pubblicitarie contenute nella rivista medesima.
Da ultimo, il bordo colorato a pallini dell’inserto di cui si tratta non era percepibile dal lettore come segno distintivo della sua natura pubblicitaria, dato che identica bordatura era utilizzata per altro articolo nella stessa pagina (quello intitolato “C’e anche il dentifricio alla propoli”) e in altre pagine della rubrica “OGGI IN FAMIGLIA”, di cui faceva parte la sotto-rubrica “Bellezza”, nella quale fu pubblicato l’inserto de quo.
Niente poteva dunque suggerire al lettore che l’articolista ad un certo punto dismetteva la sua veste informativa, per assumere quella di agente promozionale.
La conclusione appare peraltro in linea con l’orientamento interpretativo finora espresso anche dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato che per di più, con riferimento agli artt. 1, 2 e 4 del Dlgs 25 gennaio 1992 n. 74, non senza ragione ha considerato pubblicità ingannevole proprio quella realizzata con l’articolo “E lavarsi i denti diventa un gioco”, di cui giustappunto ora si discute (v. provvedimento n. 3618 in data 15 febbraio 1996).
La ricorrente sostiene peraltro che il Tribunale non avrebbe adeguatamente valutato la critica che ella già aveva rivolto al provvedimento disciplinare emesso dal Consiglio nazionale, laddove questo avrebbe illogicamente motivato la sussistenza del carattere dell’ingannevolezza, avendo da una parte ritenuto che la natura pubblicitaria dell’inserto fosse “lampante “, e dall’altra che la reclamizzazione fosse “ingannevole “, quindi in certo senso occulta.
A parte il fatto che l’intenzione trasparente dell’organo disciplinare non era quella di considerare la pubblicità come “manifesta”, ma solo di evidenziare come il carattere promozionale dell’inserto fosse innegabile e quindi comprovato (in tal senso dovendo intendersi l’aggettivo “lampante”), è poi decisiva la considerazione che il carattere ingannevole comunque nella specie sussistesse, per le ragioni appena dette, restando per ciò stesso priva di rilievo la censura della ricorrente limitata al solo aspetto formale della motivazione adottata in parte qua dall’organo disciplinare.
L’appellante sostiene poi che il Tribunale, pur accogliendo la tesi accusatoria secondo cui l’articolo in esame realizzava una forma di pubblicità redazionale, non avrebbe in alcun modo motivato sulla base di quali indizi gravi, precisi e concordanti potesse reggersi tale affermazione, prova necessaria in mancanza della dimostrazione di un rapporto di committenza tra l’impresa e la giornalista.
Osserva la Corte che, se è vero che, mancando la prova di un rapporto di committenza, la natura di pubblicità redazionale dell’articolo può (o deve quanto meno) essere desunta sulla base di elementi presuntivi, è innegabile che non solo essi ricorressero nella concreta fattispecie, ma anche che il Tribunale li abbia adeguatamente, anche se succintamente, individuati.
Si tratta d’altronde degli stessi elementi che nel caso concreto concorrevano ad integrare il concetto di pubblicità ingannevole, ossia il fatto che nell’articolo fosse stata menzionata espressamente la marca dei prodotti, fosse stata data pubblicità agli stessi anche tramite una esplicita immagine fotografica evidentemente realizzata o commissionata dalla stessa impresa produttrice, il tutto nel contesto di un articolo in cui vi era una consapevole commistione-confusione tra parte informativa e parte promozionale, senza che potesse in qualche misura diminuire l’effetto ingannatorio la pretesa finalità di “giornalismo di servizio” dell’articolo, finalità che, per potersi considerare sussistente in ragione della supposta utilità del fornire notizie su prodotti commerciali, nel caso di specie avrebbe quanto meno richiesto la doverosa indicazione delle specifiche caratteristiche dei prodotti, con i loro pretesi pregi e difetti, la loro ipotetica novità, eventualmente anche sulla base di un esame comparativo con prodotti affini.
Ma nulla di tutto questo è dato rinvenire nell’articolo di cui si discute.
Non può quindi dubitarsi che, come ha ritenuto il Consiglio nazionale e poi anche il Tribunale, la pubblicità occulta ed ingannevole realizzata con l’inserto incriminato abbia comportato una compromissione della reputazione della giornalista che ne è stata l’autrice e della intera categoria professionale, incrinando al contempo il rapporto fiduciario con i lettori.
8. Sentenza della seconda sezione civile della Corte d’Appello: corretto il titolo di Tabloid: “Basta marchette, per favore”.
Con atto di citazione notificato il 13 ed il 14 giugno 1997 il direttore di “Oggi” conveniva in giudizio il direttore responsabile del periodico ufficiale dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia “Ordine Tabloid” e l’autore dell’articolo intitolato “Basta marchette, per favore” apparso sulla prima pagina del numero di novembre-dicembre 1996 della pubblicazione e chiedeva che fosse accertata e dichiarata la illiceità dell’articolo perché diffamatorio e denigratorio nei suoi confronti, con conseguente condanna dei due convenuti al risarcimento dei danni morali e materiali patiti, che quantificava in lire 100 milioni ovvero nella misura ritenuta equa dal giudicante, nonché alla corresponsione della riparazione pecuniaria di cui all’art. 12 legge stampa; chiedeva inoltre la pubblicazione dell’emananda sentenza sul periodico indicato e sul quotidiano Il Sole 24 Ore».
Il Tribunale di Milano, con sentenza n. 9294/99, depositata il giorno 18/10/1999, dichiarava che l’articolo apparso sull’edizione di “Tabloid” del novembre-dicembre 1996 dal titolo “Basta marchette, per favore” contiene dichiarazioni diffamatorie nei confronti del direttore di “Oggi”; condannava i convenuti al risarcimento dei danni subiti dall’attore, liquidati in Lit. 30 milioni, in moneta attuale, nonché al versamento dell’importo di Lit. 10 milioni a titolo di riparazione pecuniaria, can gli interessi legali dalla domanda al saldo; disponeva la pubblicazione del dispositivo della sentenza su “Tabloid” e sul quotidiano “Il Sole 24. Ore” per una sola volta ed a caratteri di stampa normali; poneva a carico dei convenuti le spese di lite.
Avverso la sentenza proponevano appello il direttore di “Tabloid” e l’articolista, chiedendone la riforma per i motivi oggetto di separata disamina.
La parte appellante lamenta che il Tribunale ha erroneamente valutato il contenuto dell’articolo incriminata ed ha ingiustamente accolta la domanda avversaria di risarcimento danni da diffamazione a mezza stampa.
Deduce al riguardo l’appellante che il Tribunale ha erroneamente escluso che l’articolo per cui è causa costituisca legittimo esercizio del diritto di critica nei confronti di articoli definiti “pubbliredazionali” perché “di carattere apparentemente informativo, ma sostanzialmente promozionali” in quanto “realizzano in maniera occulta e ingannevole un servizio di natura pubblicitaria e contengono in effetti ugualmente messaggi pubblicitari fatti passare per informazione”; che tale commistione tra pubblicità e informazione, oltre ad essere in contrasto con la normativa sulla pubblicità ingannevole (Decreto Legislativa n. 74/92), “è particolarmente preoccupante per la stessa libertà e indipendenza dell’informazione”, tant’è che è vietata dalla normativa deontologica del giornalista e dall’art. 44 del CCNL; che della correttezza del messaggio pubblicitario deve rispondere anche il direttore del giornale nell’esercizio dei suoi compiti professionali; che l’Ordine dei giornalisti della Lombardia, nell’esercizio dei propri compiti istituzionali, si é sempre battuto por “contrastare il dilagante fenomeno in atto di presenza su quotidiani e periodici di un’informazione inquinata da interferenza della pubblicità”, anche con esposto alla magistratura; che anche l’articolista, in proprio, quale consumatore, “si è sempre battuto contro la commistione tra pubblicità e informazione”, segnalando i “messaggi scorretti o mascherati all’Autorità garante della Concorrenza e del Mercato (Antitrust) per l’adozione degli opportuni provvedimenti”; che numerosi esposti hanno condotto a delibere sanzionatorie emanate dall’Antitrust in relazione ad articoli redazionali, sostanzialmente pubblicitari, camparsi in rubriche del periodico “Oggi”; che l’appellato por tale fatto è stato sanzionato in sede disciplinare con l’avvertimento scritto dal Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia in data 16/6/96 unitamente ad una giornalista autrice degli articoli incriminati, comparsi nel predetto periodico” nella setto-rubrica “Bellezza”, a sua volta inserita nella, rubrica “Salute”; che tale provvedimento è stato confermato in data 3/11/99 dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti che ha respinto i ricorsi degli incolpati ritenendo gli articoli incriminati una forma lampante di pubblicità non trasparente, lesiva della credibilità del giornale e del rapporto di fiducia con i lettori, di “sicura rilevanza deontologica giacché si viene a ledere quel principio di lealtà dell’informazione cui, ex artt. 2 e 48 l. n. 69/63, devono essere improntati i comportamenti del giornalista e ancor più del direttore”; che in questo contesto deve essere inquadrata la vicenda per cui è causa che trae origine dalla pubblicazione “sul numero di novembre-dicembre 1996 del periodico “Ordine-Tabloid”, organo ufficiale del Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti” dell’orticolo incriminato “Basta marchette, per favore”, inserito in un più ampio discorso giornalistico teso a contrastare la commistione tra pubblicità e informazione: che tale articolo “era diretto in generale contro alcune forme di malcostume e scadimento della dignità professionale nell’attività giornalistica” e, “nell’ambito dell’argomento pubblicità-informazione, oggetto delle critiche erano le pagine salute di “Oggi”, un servizio apparso su “Gioia” e l’inserto “Salute” de “La Repubblica”; che il Tribunale ha erroneamente escluso l’esercizio nel caso di specie del “diritto di critica”, oltre che “di cronaca”, perché l’articolista “non soltanto riferiva ai lettori in ordine alla problematica degli articoli “inquinati” dalla pubblicità di prodotti commerciali e, più in generale, della pubblicità ingannevole e occulta”, ma criticava, in un periodico diretto agli “addetti ai lavori”, anche “il giornalismo asservito alle esigenze preminenti del mercato e della pubblicità, informando di avere personalmente più volte segnalato all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato casi di messaggi pubblicitari mascherati rinvenuti su vari giornali, tra cui Oggi, Gioia e La Repubblica”; che “mentre la cronaca è una esposizione di fatti e il suo scopo è informare il lettore, per cui deve essere fondata sulla più scrupolosa obiettività, la critica consiste invece in un’attività eminentemente valutativa, in un dissenso o in un consenso, per lo più ragionato, rispetto alle opinioni e/o alle condotte altrui”, con “limiti scriminanti più ampi”; che la sentenza del Tribunale ha omesso di considerare che i fatti narrati sono oggettivamente veri, entrando macroscopicamente in contraddizione con quella parte della decisione dove, invece, si da atto della verità delle segnalazioni al Garante a carico del periodico “Oggi” e delle conseguenti sanzioni dell’Antitrust, della condanna disciplinare a carico del direttore, nonché della pubblicazione di un comunicato di dissenso della direzione del settimanale circa la valutazione operata dall’Antitrust; che erroneamente il Tribunale “ha negato che possa corrispondere a verità ed esattezza la presentazione del direttore come responsabile delle scelte censurate”, ritenendo provato, alla luce delle acquisizioni probatorie nel procedimento disciplinare, che i direttori sono costretti a subire queste scelte imposte dall’editore attraverso i responsabili della pubblicità; che il “subire” non può certamente costituire una scriminante verso comportamenti “gravemente illeciti e supportati solo da interessi di carattere economico” evitabili dal direttore del settimanale attraverso l’esercizio delle sue funzioni e dei suoi campiti previsti dal CCNL; che, con sintesi giornalistica appropriata e carretta, il giornalista ha ricordato nel citato articolo che il direttore del periodico ha nella sostanza respinto le argomentazioni e le decisioni dell’Antitrust, pubblicando il comunicata di dissenso sopra menzionato e proseguendo ulteriormente nell’illegittima attività di commistione tra informazione e pubblicità; che, dalla documentazione versata in atti, si evince che “il giornalista ha presentato svariate segnalazioni anche contro altri giornali per articoli contenenti pubblicità ingannevole” e che il settimanale Oggi è stato colpito da denunce per questi comportamenti non solo da parte del giornalista, ma anche di altri soggetti; che i fatti sopra ricordati sano di interesse pubblico e sono stati esposti con sostanziale continenza anche dal punto di vista formale, attesa la natura della critica esercitata, non solo verso il direttore, mai peraltro menzionato direttamente, ma anche nei confronti di soggetti diversi dal dirottare di Oggi; che la definizione di “falsi articoli” si riferisce appropriatamente “ai cosiddetti redazionali contenenti pubblicità mascherata”, come facilmente comprensibile dal pubblico dei lettori “addetti ai lavori”; che l’espressione “marchette” risulta utilizzata nel titolo, senza alcuna volontà diffamatoria nei confronti specificamente del direttore di “Oggi”; che tale espressione “fare marchette” “è ormai entrata nel linguaggio corrente e non riveste alcun carattere specifico di offensività”; che si deve pertanto ritenere insussistente la lesione dell’onore e della reputazione dell’appellato, ritenuta invece ingiustamente nella sentenza in oggetto; che, quindi, nulla può legittimamente essere addebitato anche al direttore di Tabloid, tenuto conto della natura dell’orticolo incriminato e del contesto nel quale è stato pubblicato; che, infine, erroneamente il Tribunale ha accolta in misura eccessiva la domanda avversaria di risarcimento del danno, peraltro inammissibile per la sua indeterminatezza.
Osserva la Corte che la complessa doglianza che precede è fondata e deve essere accolta, con conseguente integrale riforma della sentenza impugnata.
Osserva la corte che il Tribunale ha erroneamente ritenuto che l’articolo, apparso sull’edizione di “Tabloid” del novembre-dicembre 1996 dal titolo “Basta marchette, per favore” contiene dichiarazioni diffamatorie nei confronti del direttore di “Oggi”, con conseguente responsabilità dell’autore e del direttore responsabile di “Tabloid”.
Invero l’articolo in oggetto, pubblicato su di una rivista diretta esclusivamente agli “addetti ai lavori”, com’è pacifico agli atti, non contiene alcuna frase diffamatoria nei confronti del direttore di “Oggi” perché l’articolista si è limitato a riferire ai lettori, in modo veritiero, in merito alla sua battaglia contro la pubblicità mascherata, esprimendo nel contempo la sua critica rispetto agli articoli in questione, di apparente contenuto informativo, ma in sostanza di carattere pubblicitario.
Osserva la Corte che la motivazione della sentenza di primo grado è contraddittoria laddove, dopo avere ritenuto sussistente uno specifico interesse per i lettori di Tabloid di conoscere i fatti per cui è causa e dopo avere affermato che “i singoli fatti riferiti (le otto pronunzie dell’Autorità garante a carico di Oggi e la pubblicazione di un comunicato di dissenso della direzione del giornale) sono oggettivamente veri” (vedi pagg. 6/7 della sentenza appellata), ha poi ritenuto non carretta e veritiera “la presentazione dell’attore crome responsabile delle scelte censurate” e inesistente il contestato “rigetto” da parte del direttore di “OggI” delle decisioni dell’antitrust. Invero non vi è alcun dubbio sul fatto che gli articoli incriminati siano stati pubblicati sul settimanale Oggi con il sostanziale accordo del suo direttore, al quale la legge e il CCNL attribuisce appunto il compito di decidere in merito agli articoli da inserire nel giornale. D’altra parte il direttore di “OggI” si é espressamente assunto la responsabilità della decisione in oggetto quando ha pubblicato sul numero del 29/1/97 del settimanale in questione il “Comunicato della Direzione di Oggi” (vedi fascicolo dell’attore) con il quale ha contestato la decisione dell’Autorità Garante della Concorrenza in relazione al box relativo al prodotto “Fard Facile Deborah”, pubblicato nel precedente numero del 20/3/96, “definito dal Garante messaggio pubblicitario” ; infatti in questo comunicato la Direzione di Oggi afferma, in contrasto con il provvedimento del Garante che “quanto pubblicato era un vero articolo giornalistico” e che “i testi della rubrica sulla bellezza, così come di tutte le altre rubriche e articoli del nostro settimanale, sono frutto di libera scelta giornalistica non condizionata.da alcun intervento da parte dell’Editore a degli inserzionisti pubblicitari”.
Appare evidente, quindi, che, contrariamente a quanto erroneamente affermato dal Tribunale, risponde a verità “la presentazione dell’attore come responsabile delle scelte censurate” e che non è corretto il riferimento del giudice di primo grado a “scelte imposte dall’editore attraverso i responsabili della pubblicità”, riferimento peraltro fondato su dichiarazioni rese da altri direttori di giornali sentiti nel corso del procedimento disciplinare a carico del direttore di “Oggi”. Osserva sul punto la Carte che, comunque, anche se si ritenesse provata l’esistenza delle pressioni in oggetto, non potrebbe comunque non ritenersi veritiera “la presentazione dell’attore come responsabile nelle scelte censurate” perché la responsabilità degli articoli pubblicati sul settimanale in questione non può non ricadere sul suo direttore responsabile che, per la carica assunta, risponde per legge e per contratto di quanto pubblicato; che erroneamente il Tribunale ha ritenuto inesistente il contestato “rigetto” da parte del direttore di “OggI” delle decisioni dall’Antitrust in quanto il contenuto del “Comunicato della Direzione di Oggi” sopra citato rappresenta con ogni evidenza un sostanziale “rigetto” della decisione dell’Antitrust, non condivisa dal direttore di “Oggi” che l’ha ritenuta ingiusta; che del tutto irrilevante al riguarda è la considerazione, esposta dalla difesa dell’appellato, relativa al fatto che nel procedimento davanti all’Antitrust è parte solo l’Editore e non il Direttore del settimanale che, comunque, è il responsabile legale della pubblicazione incriminata.
Osserva ancora la Corte che erroneamente il Tribunale ha ritenuto che “già a partire dal titolo l’articolista di ‘Tabloid’ abbia superato il limite della stretta funzionalità delle espressioni usate ad esprimere il suo pensiero, con il chiaro intento di offendere i colleghi che, al contrario di lui, si prestano al gioco della pubblicità mascherata; invero il riferimento alle “marchette”, contenuto nel titolo dell’articolo incriminato, costituisce una felice sintesi giornalistica, già. altrove utilizzata (vedi doc. n. 33 parte appellante, relativa al convegno internazionale del 1993 – organizzato dall’Ordine dei giornalisti di Roma – su “Notizie Pulite – Giornalisti tra “marchette” e “manette”), per individuare e criticare comportamenti ritenuti deontologicamente non corretti dall’articolista di “Tabloid”, tra cui quelli relativi alla pubblicazione dei “pubbliredazianali” in oggetto, apparentemente di carattere informativo, ma in sostanza di contenuto pubblicitario, come affermato anche dal Garante; che l’espressione incriminata non significa, come affermato dalla difesa del direttore di “Oggi”, che il predetto abbia “ricevuto soldi dalle aziende” i cui prodotti sano stati pubblicizzati, ma solo che, a giudizio dell’articolista, confortata sul punto dalle richiamate decisioni del Garante, questi articoli contengano pubblicità mascherata da informazione e, quindi, sono contaminati da esigenze diverse da quelle puramente informative.
Osserva, infine, la Corte che erroneamente il Tribunale afferma che il Direttore di Oggi è l’unico ad essere “individuato” quale responsabile di questa pubblicità occulta, in quanto, nell’articolo incriminato vengono esposte critiche al riguardo anche nei confronti di altre testate e di altri direttori, come giustamente evidenziata dalla difesa degli appellanti che, con il riferimento ai “falsi articoli” e alla stucchevole ostinazione di alcuni direttori, l’articolista di “tabloid” ha semplicemente affermato che, nonostante le sue denunce, la pubblicazione di articoli – “falsi” perché contenenti in sostanza pubblicità e non informazione – è continuata, come si evince anche dalla presenza di altri esposti contro il settimanale in oggetto e di altre decisioni dell’Antitrust al riguardo, documentata dalla parte appellante; che, peraltro, l’appellato non ha contestato specificamente che questa attività, lecita a suo giudizio, come si evince dal richiamato “Comunicato”, sia continuata anche dopo gli esposti del giornalista; che, quindi, anche le espressioni ora richiamate non integrano alcuna diffamazione, come invece erroneamente ritenuto dal Tribunale.
La sentenza impugnata deve pertanto essere riformata in toto, con conseguente rigetto della domanda dell’attore, erroneamente accolta dal Tribunale.
9. Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti di Milano: delibere su giornaliste “attrici pubblicitarie” e sui contenitori pubblicitari che mescolano inserzioni e articoli funzionali alle inserzioni.
9.1. Il Consiglio ha sanzionato due giornaliste, che si sono prestate a trasformarsi in “attrici” pubblicitarie. Gli strateghi del marketing aziendale ritengono oggi che il messaggio pubblicitario sia più incisivo e penetrante se è presentato da un giornalista all’interno di una trasmissione televisiva di cui lo stesso giornalista è un protagonista di prestigio. Il Consiglio ha costantemente affermato che esiste una strategia precisa secondo la quale la pubblicità deve presentarsi come informazione, cioè con il volto e la firma dei giornalisti. Si punta a collocare il messaggio pubblicitario in maniera sempre più diretta all’interno dell’informazione. Non c’è niente di meglio che far recitare lo spot pubblicitario a una giornalista, che lavora con il suo volto e il suo nome all’interno della trasmissione stessa. Questa strategia finisce per inquinare la figura del giornalista professionista.
La nuova frontiera della pubblicità, che sta invadendo l’informazione, mette in discussione l’autonomia professionale del giornalista con ricadute lesive sull’immagine del giornalista, dell’Ordine e della professione. La confusione dei ruoli crea quel clima negativo che limita l’autonomia professionale, perché elimina il confine morale tra informazione e pubblicità. Confine morale che (in passato e in molti casi) è saltato quando telecronista e teleoperatore di concerto decidono di inquadrare i messaggi pubblicitari cartellonistici posti all’interno di un campo di calcio, lungo il percorso di una corsa ciclistica o di una gara automobilistica.
Le giornaliste sanzionate hanno violato l’obbligo di esercitare “in modo esclusivo e continuativo” la professione (articolo 1, comma 3, della legge n. 69/1963 sull’ordinamento della professione giornalistica). Questo assunto può ammettere eccezioni nel senso di svolgere attività gratuite volte alla promozione dei diritti umani, della solidarietà e dell’ambiente, che sono “principi fondamentali” della nostra Carta costituzionale. Prestare il nome, la voce, l’immagine per iniziative pubblicitarie realizza di per sé una attività incompatibile con la tutela dell’autonomia professionale, perché determina una violazione dell’obbligo di esercitare “in modo esclusivo e continuativo” la professione. I principi della Carta dei doveri vanno letti dentro l’articolo 1 della legge professionale. Chi si trova in questa situazione pone in essere comportamenti che recano una ferita alla propria dignità, alla dignità della professione giornalistica e dell’Ordine al quale appartiene. Nell’ordinamento giornalistico lo spartiacque pubblicità-informazione è un principio morale ineludibile da parte degli iscritti gelosi della loro autonomia e della loro credibilità “esterna”. Il giornalista non solo deve essere, ma deve anche apparire corretto. L’articolo 2 della legge n. 69/1963 protegge il comportamento “interno” (“l’essere”) della professione, mentre l’articolo 48 tutela la proiezione “esterna” (“l’apparire”) della professione: il come gli altri percepiscono l’immagine del giornalista attraverso i suoi comportamenti pubblici.
9.2. I contenitori pubblicitari che mescolano inserzioni e articoli funzionali alle inserzioni. La commistione pubblicità/informazione appare una risposta miope e sbagliata da parte degli editori, che non si pongono il problema di difendere anche l’immagine delle testate, della professione giornalistica e dei loro redattori. Nessuno avversa la pubblicità, ma la si vuole soltanto corretta. Il Consiglio non può (sentenza n. 11/1968 della Corte costituzionale) e non intende giudicare gli articoli, che accompagnano spesso le inserzioni pubblicitarie. Gli articoli sono estranei al giudizio disciplinare, ma sono e appaiono funzionali alla pubblicità ospitata nel “contenitore” (il caso specifica riguarda il “Corriere della Sera” e un suo caporedattore sanzionato dall’Ordine di Milano). La sanzione è stata confermata il 20-21 dicembre 2006 dal Consiglio nazionale dell’Ordine. La decisione del Consiglio nazionale merita di essere letta.
Sulle pagine dell’Osservatorio Hi-Tech collocate all’interno di “Corriere Economia”, supplemento del Corriere della Sera, appaiono, nelle date indicate, i seguenti servizi e inserzioni pubblicitarie di aziende di telefonini e portatili pc:
1) 16.12.2002: a pag.11 intervista al numero 1 di H3G incastonata tra due inserzioni H3G e intera pagina 14 pubblicità H3G;
2) 31.03.2003: intervista all’amministratore delegato della Siemens ampia pubblicità a pagina 21 e intera pagina 24;
3) 14.04.2003: pagg. 21, 22, 23 e 24 con sei inserzioni della BenQ e intervista ad amministratore delegato della BenQ;
4) 16.06.2003: pagg. 21, 22 e 23 (intera) pubblicità BenQ e intervista con responsabile marketing BenQ.
Il Consiglio regionale dell’Ordine della Lombardia apre un procedimento a carico del responsabile della redazione che cura detto supplemento, contestandogli i fatti e le violazioni delle norme che fissano i paletti tra informazione e pubblicità.
Al termine del procedimento, il Consiglio regionale, in data 19 gennaio 2004, infligge al giornalista la sanzione disciplinare dell’avvertimento ritenendolo responsabile di non aver fatto nulla per impedire la pubblicazione di servizi in un contesto di commistione tra pubblicità e informazione e di non aver protestato con i vertici aziendali, in tal modo minando, nella sua veste di garante della correttezza e della qualità della informazione del supplemento “Corriere Economia”, il “diritto dei cittadini di ricevere una informazione corretta, sempre distinta dal messaggio pubblicitario”.
Il giornalista, nel ricorso a sua firma, in via preliminare eccepisce la mancata correlazione tra la contestazione e la motivazione della sanzione disciplinare particolarmente ampia (come la stessa istruttoria, del resto) e nel merito ribadisce quanto dichiarato in sede regionale. Il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Milano esprime parere contrario all’accoglimento del ricorso rilevando anche come non fondato il primo motivo dello stesso risultando “evidente la contestazione” mossa al giornalista. Sostiene tra l’altro il P.G. che “non vi è dubbio che l’esame delle pagine, del modo in cui sono pubblicati i servizi e cioè accompagnati – a volte nella stessa pagina – da inserzioni pubblicitarie … minano il rapporto di fiducia tra lettore e stampa”. Il Consiglio nazionale concorda con le valutazioni della Procura e le fa proprie.
Dall’esame della documentazione in atti risulta infatti che il giornalista ammette: “per la parte informativa godo di una totale libertà”; sostiene che esiste un reale interesse degli argomenti trattati; ammette la singolarità della coincidenza tra servizi e pubblicità ma – aggiunge – “non so” chi informa il marketing”. Chiarisce che ogni lunedì ha il timone del numero del venerdì con gli inserzionisti definiti che, inspiegabilmente, cadono nelle pagine nelle quali lui, “con una libertà totale”, ha previsto i servizi ai dirigenti delle stesse società che fanno le inserzioni.
Ammette anche che c’è un qualche passaggio di comunicazione con l’ufficio marketing, ma non spiega che cosa mai gli impedisca, data la “libertà totale” di cui gode “per la parte informativa”, di inserire in pagine diverse dalle pubblicità delle aziende le interviste ai dirigenti delle stesse. Non può fare a meno di ammettere, infine, che gli articoli appaiono funzionali alla pubblicità: “… questo lo so”. Si limita a prendere atto della coincidenza ripetuta.
Non ha mai protestato con il marketing. La difesa scrive che “forse avrebbe rischiato il posto di lavoro” se lo avesse fatto. Risulta provata, pertanto, la responsabilità del giornalista che non ha posto in essere ogni azione possibile per evitare la pubblicazione degli articoli accompagnati da inserzioni pubblicitarie relative al tema, al prodotto e alla società esaminati negli articoli stessi. Per quanto riguarda la sanzione, il Consiglio nazionale, concordando con la valutazione dei primi giudici circa il comportamento leale tenuto dal giornalista, giudica equa quella dell’avvertimento”.
10. Conclusioni. Corte d’Appello di Milano: “Il giornalista deve essere e deve apparire corretto”.
Dalle sentenze dei giudici è possibile estrapolare un insieme di regole, che, se rispettate, potrebbero garantire la qualità dei mass media.
Dall’ordinamento emerge che il giornalista è tenuto ad essere e ad apparire corretto così come il giudice deve essere e deve apparire indipendente. Una massima giurisprudenziale racchiude la norma comportamentale appena enunciata: “Oltre all’obbligo del rispetto della verità sostanziale dei fatti con l’osservanza dei doveri di lealtà e di buona fede, il giornalista, nel suo comportamento oltre ad essere, deve anche apparire conforme a tale regola, perché su di essa si fonda il rapporto di fiducia tra i lettori e la stampa” (App. Milano, 18 luglio 1996; Riviste: Foro Padano, 1996, I, 330, n. Brovelli; Foro It., 1997, I, 938).
Indro Montanelli era solito ripetere che i veri padroni dei giornali sono i lettori. Gli uomini del marketing, invece, affermano che i veri padroni dei giornali sono gli inserzionisti. Due “verità”, che fanno a pugni. Gli editori pensano soltanto agli introiti pubblicitari e non sono dei filantropi. I giornalisti, con la loro autonomia e con la loro indipendenza, non hanno la priorità. Una volta si parlava di centralità della redazione nel corpo dell’azienda editoriale. Oggi la centralità spetta agli uffici marketing. I periodici sono ormai dei postal-market, una marmellata indistinta tra testi pubblicitari e notizie/commenti. Su questo punto, non solo l’Ordine, ma soprattutto la professione rischia un drammatico ko.
E’ possibile estrapolare dalle norme e dalle sentenze un network di regole sull’argomento commistione pubblicità/informazione sulla falsariga di quanto ha fatto il Consiglio nazionale dell’Ordine con un documento del 4 luglio 2006. Si tratta di un vero e proprio “Regolamento deontologico”, che è così articolato:
L’Ordine dei Giornalisti, con i suoi poteri di ente pubblico, vigila nei confronti di tutti e nell’interesse della collettività, sulla rigorosa osservanza di quella dignità professionale che si traduce, anzitutto e soprattutto, nel non abdicare mai alla libertà di informazione e di critica e nel non cedere a sollecitazioni che possano comprometterla (Sent.n.11/1968 Corte Cost.)
La fissazione di norme interne, individuatrici di comportamenti contrari al decoro professionale, ancorché non integranti abusi o mancanze, configura legittimo esercizio dei poteri affidati agli Ordini professionali, con la consequenziale irrogabilità, in caso di inosservanza, di sanzione disciplinare (Sent.n.7543-9/7/1991 – Cass. Civ.)
La pubblicità deve essere palese, veritiera e corretta (Art.1, comma 2, D.L. 25/1/1992 n. 74, principio oggi incorporato nel Dlgs 206/2005)
E’ diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica … (Art. 2, legge n. 69/1963)
Costituisce illecito disciplinare, in quanto contrario al prescritto dovere di lealtà nell’informazione, il comportamento del direttore responsabile di un periodico, che avalli la pubblicazione di una copertina e di articoli dotati di contenuto pubblicitario non chiaramente differenziato rispetto al dato informativo (Trib. Mi 11/2/1999).
E’ dovere del direttore di un giornale o di un periodico evitare che prodotti reclamizzati vengano confusi con quanto, nella stessa pagina, è argomento redazionale. Il direttore di un giornale deve evitare la commistione informazione/pubblicità in base alla legge e al contratto collettivo (Cassazione Sezione Terza Civile n. 22535 del 20 ottobre 2006).
Di fronte a iniziative di marketing e puramente pubblicitarie, il direttore di un giornale o di periodici, deve vegliare e dissentire (sentenza n. 1827/2003 della prima sezione civile della Corte d’appello di Milano).
Il giornalista che redige articoli a sostegno di campagne pubblicitarie o che accetta che il suo pezzo compaia in pagine o inserti la cui natura è chiaramente promozionale, deve togliere la propria firma (delibera di indirizzo del novembre 1986 dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia)..
Il giornalista non può fare spot pubblicitari né può prestare il proprio volto ad essere testimonial di prodotti o di aziende commerciali (delibere dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia).
La pubblicità televisiva e radiofonica deve essere riconoscibile come tale ed essere distinta dal resto dei programmi con mezzi ottici o acustici di evidente percezione (art. 8 della legge n. 223/1990)
Il giornalista televisivo o radiofonico, conduttore di un programma, non può prestarsi a lanciare uno spazio pubblicitario interrompendo il programma. Diventerebbe egli stesso promotore di quella pubblicità. (delibere dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia).
L’art. 5 del Codice di autoregolamentazione per l’informazione economica e finanziaria stabilisce che il giornalista, tanto più se ha responsabilità direttive, deve assicurare un adeguato standard di trasparenza sulla proprietà editoriale del giornale e sull’identità di eventuali interessi di cui siano portatori i suoi analisti e commentatori esterni in relazione allo specifico argomento dell’articolo. In particolare va precisato al lettore chi è l’editore del giornale quando un articolo tratti problemi economici e finanziari che direttamente lo riguardino e possano in qualche modo favorirlo o danneggiarlo
Il giornalista che compia viaggi organizzati da società private o pubbliche è tenuto a rispettare il valore etico dell’obiettività fornendo tutte le informazioni sulla materia oggetto del servizio e sulle opportunità offerte dal mercato. (vicenda Dubai sollevata dall’Ordine di Milano).
Il giornalista rifiuta pagamenti, rimborsi spese, elargizioni, vacanze gratuite, trasferte, inviti a viaggi, facilitazioni, tutto che possa condizionare il suo lavoro e l’attività redazionale o ledere la sua credibilità e dignità professionale. (vicenda Dubai sollevata dall’Ordine di Milano).
Il giornalista che partecipa ad un viaggio a nome di una testata lo farà soltanto previo esplicito accordo con il giornale interessato. (vicenda Dubai sollevata dall’Ordine di Milano).
Un articolo collocato in una rubrica dedicata alla salute o alla bellezza contenente specifici riferimenti, anche fotografici, a determinati prodotti nonché ad un eventuale inserto recante consigli sull’igiene, accompagnati dall’indicazione dei prodotti da prediligere con relativa documentazione fotografica, è da qualificarsi come messaggio ingannevole (Provv.n.3618- 15/2/1996 Antitrust; delibera dell’Ordine dei Giornalisti di Milano; sentenze del Tribunale e della corte d’Appello di Milano).
Il Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, con la delibera 24 gennaio 2005 (Avoledo + 9 direttori di periodici legati alla moda, alla salute, alla bellezza, all’auto e al mondo dei vip), ha individuato un primo nucleo, attuale e penetrante, di considerazioni e di regole deontologiche, legate ai tempi in cui viviamo e allo sviluppo della professione come è e si presenta al giorno d’oggi:
Vietare ai giornalisti che vanno in televisione di fare da testimonial ad un prodotto, citare stilisti o prodotti. La citazione di un prodotto in tv vale molto di più che sui giornali (nel senso che dalle aziende è pagata molto di più). Se una rivista viene letta da 200mila persone un programma televisivo viene visto da milioni di spettatori, e quindi le ditte di abbigliamento o di altri prodotti sono disposte a pagare moltissimo i giornalisti per tali citazioni, anche decine di milioni di vecchie lire.
I giornalisti non possono avere come agenti quelli che sono anche agenti di dive e starlette televisive. Altrimenti succede, come avviene ora, che direttori di telegiornali, direttori di giornali o opinionisti di fama favoriscono nei loro tg, giornali, e nelle trasmissioni dove sono ospiti, i personaggi che sono gestiti dal loro stesso agente. E’ ovvio che per fare un favore al loro stesso agente nei loro giornali o telegiornali i direttori dedichino tanto spazio a quegli stessi personaggi che sono rappresentati dal loro stesso agente.
I giornalisti nei loro articoli e nelle didascalie non devono citare esperti di comunicazione o pierre di moda, cosmetica e altro.
I giornalisti non devono poter ricevere regali superiori a una certa cifra. Come avviene negli Usa . E come avviene negli Usa i conti correnti dei giornalisti e dei loro famigliari devono poter essere controllati.
I giornalisti e i loro familiari non possono costituire società con personaggi che compaiono poi nei loro giornali, articoli ecc. Quelle delle società è uno escamotage che è oggi molto in uso fra i giornalisti economici e non solo.
I giornalisti, non solo quelli che si occupano di automobili, ma anche quelli economici o di altri settori, non possono chiedere alle case automobilistiche auto in prova durante il week-end o per motivi semplicemente personali. Le auto devono essere date solo a chi scrive di automobili.
I giornalisti non possono scrivere cartelle stampa di prodotti di abbigliamento, cosmesi, comunicati stampa di aziende, tenere le pubbliche relazioni di ditte, se lavorano in una testata giornalistica o televisiva. Perché questo rappresenta un modo subdolo per comprarsi i giornalisti. Se scrivi le cartelle stampa delle collezioni di XX, che fra l’altro vengono pagate profumatamente, decine di milioni di vecchie lire, come può il giornalista accennare una critica a quello stilista. Al contrario, un giornalista che ha scritto una cartella stampa si sente obbligato a essere generoso nei confronti dello stilista X anche negli articoli che poi scrive per il suo giornale.
Gli articoli che vengono scritti su personaggi che sono inserzionisti del giornale devono potersi distinguere da altri articoli, almeno nella grafica. O con la scritta informazione pubblicitaria anche se tali soluzioni non piacciono agli inserzionisti. Bisognerebbe chiedere a un grande esperto di pubblicità qualche possibile soluzione.
Nei settimanali femminili gli inserti allegati al giornale sugli accessori (scarpe e borse) sono tutti esclusivamente pubblicitari. I prodotti che appaiono sono di aziende che hanno pianificato: cioè pagato. Ma anche i giornalisti che partecipano a quella realizzazione con servizi fotografici o con testi scritti sono pagati a parte dalla pubblicità così come vengono pagati a parte i grafici. Molte case editrici oggi fanno ai giovani solo contratti di collaborazione o altri contratti a basso costo. I giornalisti soprattutto giovani guadagnano poco e quindi sono disposti a tutto anche a scrivere quello che non pensano e sempre più spesso arrotondano il loro misero salario. Come? Le case editrici offrono loro di guadagnare molto con la pubblicità. Realizzando la campagna pubblicitaria di uno stilista o di un prodotto di bellezza o inserti pubblicitari. Così loro pagano poco i giornalisti, ma questi ultimi mantengono uno standard medio di stipendio con le entrate dei lavori pubblicitari sul loro stesso giornale o sugli inserti speciali del loro giornale. Nessuno di questi inserti contiene la scritta informazione pubblicitaria o catalogo pubblicitario.
Una buona soluzione sarebbe di riportare nei settimanali, come avveniva negli anni 60/70, il rapporto pagine di pubblicità e pagine redazionali al 50 per cento, ciascuno. Cosa che oggi non avviene più. Ristabilendo una proporzione adeguata e aumentando il numero di pagine redazionali si può solo avere un vantaggio per il lettore e più spazio per argomenti giornalistici.
Perché nei giornali americani come Herald Tribune una giornalista di moda come Susy Menkes riesce a scrivere che la sfilata di Gucci è brutta con a fianco mezza pagina di pubblicità di Gucci? Primo perché la giornalista non si lascia condizionare dalla pubblicità. Secondo perché quando Gucci chiama l’Herald Tribune e minaccia di togliere la pubblicità, il giornale difende la sua giornalista, non subisce ricatti e gli risponde per le rime, faccia pure. In Italia, invece quando il direttore riceve questa telefonata cerca di mediare anche perché Gucci o gli altri minacciano di togliere la pubblicità a tutto il gruppo. Per cui le giornaliste di moda di settore scrivono bene di tutti.
Negli Usa vengono fatte riflessioni sempre più pessimistiche sulla deriva del sistema mediatico. Il ruolo dei media non è quello di indirizzare i lettori allo shopping. Saul Landau ha scritto su Znet Italia: “Dopo che negli ultimi decenni pochi giganti multinazionali hanno conquistato il controllo dei media, le priorità dei media sono venute di pari passo modificandosi, sviando i lettori e i telespettatori dalle preoccupazioni politiche e indirizzandoli verso lo shopping. I mass media distraggono i cittadini distorcendo le loro priorità, attraverso l’invio di 3600 messaggi giornalieri, che li inducono a fare i conti con la loro personale inadeguatezza a spendere. Il succo di questo fuoco di fila di messaggi è: “Tu, consumatore (non cittadino), sei inadeguato per l’aspetto, per l’abbigliamento, per il tipo di auto che guidi, per il deodorante, che usi, e per ogni altro motivo. Ma puoi affrontare i problemi del tuo grasso eccessivo, della tua eccessiva magrezza, della tua eccessiva gioventù, della tua eccessiva vecchiaia, acquistando prodotti per ogni segmento del tuo corpo, della tua mente e della tua vita esteriore”.