Dubbi sulla reale utilità del nuovo istituto per i diritti dei consumatori.
Il 15 novembre il Senato ha approvato un emendamento alla Legge Finanziaria per l’anno 2008 che introduce l’istituto dell’azione collettiva per far fronte ad illeciti, contrattuali o extracontrattuali, produttivi di danni per una pluralità di consumatori. Secondo l’emendamento introdotto le associazioni di cui all’articolo 139 del D.lgs. 206/2005 (Codice del consumo) nonché altri enti che saranno individuati con decreto del ministro della Giustizia di concerto con il ministro dello Sviluppo economico, potranno agire in giudizio per ottenere una sentenza di condanna del professionista, in cui, accertato che si tratti di illecito che possa potenzialmente offendere i diritti di una pluralità di consumatori o utenti, il giudice determini i criteri in base ai quali deve essere fissata la misura dell’importo da liquidare in favore dei singoli consumatori o utenti. I singoli consumatori, forti di tale pronuncia interpretativa, potranno agire individualmente per la liquidazione dei loro danni. Tale tipo di istituto non sembra essere una vera class action come prevista principalmente nei paesi con diritto di origine anglosassone, per il semplice fatto che in essa non sono messi in gioco i diritti di una “classe”. Gli enti esponenti delle categorie di consumatori non possono agire in giudizio come veri rappresentanti dei soggetti danneggiati, ma sono portatori solo di un interesse diffuso. Ai singoli è lasciata l’incombenza ulteriore di dovere affrontare un processo per la liquidazione monetaria dei diritti violati. La sentenza di accoglimento dell’azione promossa dagli enti individuati dalla legge non è una sentenza di condanna, ma solo una pronuncia di carattere dichiarativo o interpretativo. Solo a seguito della sua pronuncia (e ci potrebbero volere anni solo per ottenere tale pronuncia), i singoli consumatori dovranno, se lo ritengono opportuno, ancora agire individualmente per vedersi liquidati i danni (e ci potrebbero volere altri anni di cause, il cui costo dovrà essere sopportato dai singoli cittadini). Con ciò è evidente che si capovolga il significato che il termine Class action ha in altri sistemi giuridici, dove, in seguito ad una sentenza di condanna emessa dal Tribunale su azione anche solo di alcuni esponenti della categoria lesa, basta appartenere a tale categoria o “class” per ottenere direttamente il dovuto risarcimento nei confronti del soggetto che è stato condannato. La ragione principale per introdurre in Italia l’istituto dell’azione collettiva dovrebbe essere quella di evitare ai singoli consumatori la necessità di agire da soli ed a loro spese per i loro diritti, ma ciò non è stato previsto, anzi è stato previsto l’esatto contrario mediante un sistema che, vista la lentezza ed i costi dei processi in Italia, pare avvantaggiare le potenti società che commettono illeciti offensivi di interessi diffusi dei consumatori e degli utenti. Tale sistema, ma anche quello di stampo anglosassone, pare poi stridere con il principio del contraddittorio, sancito agli articoli 24, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, secondo il quale la sentenza di un giudice ha valore solo fra coloro che hanno partecipato al processo. Ciò significa anche che chi non ha partecipato al processo non può essere pregiudicato da una decisione che, come visto, non gli è opponibile. Questo vuole dire anche che la lesione di medesimi diritti potrà essere azionata e giudicata più volte a seconda delle parti che agiranno (diversi enti portatori di interessi diffusi, i singoli consumatori ed utenti), con conseguente moltiplicarsi delle procedure, dispendio di energie e costi processuali. In verità occorrerebbe un istituto che abbia come obiettivo quello di individuare la “class” al fine di potere, conformemente però ai dettami Costituzionali, celebrare un unico processo che decida, una volta per tutte, sia per i consumatori che per il professionista la controversia. (D.A. per NL)