Alla fine il buon senso e la caparbietà degli internauti ha vinto, dimostrando come a volte, non sempre ma a volte, mettersi insieme e combattere uniti contro gli abusi, premia. Il governo cinese, come annunciato dal ministro dell’industria e della tecnologia Li Yizhong, rinuncia ufficialmente a Green Dam, la diga verde che avrebbe istituzionalizzato, legalizzato, reso efficiente e capillare la rete censoria del governo di Pechino nei confronti del bacino web più popoloso del mondo. I 300 milioni d’internauti cinesi, però, solitamente sottomessi e tacitamente consenzienti, si sono rivoltati, facendo partire una campagna anti-Diga verde durata tre mesi, ed alla fine hanno avuto la meglio. In giungo, infatti, il ministero guidato da Li Yizhong aveva annunciato che dal primo luglio successivo tutti i produttori di software presenti nel mercato cinese avrebbero dovuto adattare le proprie produzioni a nuove restrizioni imposte dal governo del Dragone rosso: per vendere pc in Cina, di fatti, era richiesta l’introduzione di un apparecchio obbligatorio, detto Green Dam, che avrebbe dovuto limitare l’accesso a siti pornografici. Laddove per pornografici leggasi siti indesiderati d’informazione internazionale. In effetti, come è stato dimostrato da alcuni internauti che hanno preso parte alla “rivolta del web” (passata, certo, dalla rete ma anche dai giornali e dal passaparola), la diga verde non blocca certo i siti a contenuto pornografico, comodamente visibili, bensì i più importanti portali d’informazione internazionale. I giornali, si diceva. Il Beijing Times ha pubblicato alcuni sondaggi secondo i quali l’83% degli internauti cinesi considera Green Dam una violazione della propria privacy, il 74% è convinto non funzionerà e, addirittura, il 93% sostiene di rifiutarsi di pagare il costo addizionale e obbligatorio del servizio. Ovviamente anche all’estero la notizia ha avuto grossa eco, e sul sito web della Bbc si è anche letto che l’installazione di questo programma renderebbe i sistemi vulnerabili nei confronti di attacchi ostili, mettendo a rischio la sicurezza dei dispositivi. Fatto sta, comunque, che alla vigilia del primo luglio, data segnalata come ponte di passaggio alla nuova legislazione, il governo, travolto dalla protesta, ha preso a tentennare. Spinto anche dalla nuova rivolta partita dall’industria produttrice (inizialmente consenziente poi, spinta dal popolo del web, indignata) che denunciava possibili violazioni delle regole dell’Organizzazione internazionale del commercio (Wto), il governo decideva di rinviare l’entrata in vigore del nuovo regolamento a data da destinarsi. Col proseguire della protesta, poi, alcuni giorni fa, il ministro Li Yizhong ha annunciato il definitivo tramonto del progetto tramite il quale il governo cinese si sarebbe impossessato una volta per tutte del web di casa loro. L’obbligo permane per quanto concerne scuole, internet cafè e uffici pubblici, ma l’ostinazione del popolo della rete ha fatto comunque il miracolo. Sembra una favola da cui prendere esempio per scriverne tante altre, purtroppo però non sempre le favole come queste vanno a buon fine. (Giuseppe Colucci per NL)