“Guardo i miei figli e mi accorgo che leggono i giornali solo online, ma non li posso biasimare perché si informano e cercano di capire. Ogni settimana, quando prendo l’immensa edizione domenicale del New York Times, i miei figli fanno sempre gli stessi commenti: Ma quanti chili pesa? Ma che senso ha? Ma quanta carta si spreca?”. Questo è David Remnick (foto), cinquant’anni, da dieci direttore del “New Yorker”, il più prestigioso settimanale statunitense, vero e proprio oggetto di culto per l’intellighenzia americana. Il “New Yorker”, fondato nel 1925 da Harold Ross e sua moglie Jane Grant, detiene negli Usa un primato a dir poco insolito: negli ultimi anni ha guadagnato copie regolarmente (ne distribuisce in media 1 milione ogni settimana), pur ignorando il mondo dello star system, che tanto fa vendere ai giornali più diffusi, tabloid e quant’altro. Non solo, il “New Yorker” ha una grafica piuttosto austera, quasi immutata dalle origini della sua fondazione, illustrazioni rigorosamente in bianco e nero e inchieste interminabili, lunghe fino a 20 pagine. I segreti del successo di questo giornale sono tanti, come spiega lo stesso Remnick, enfant prodige del giornalismo statunitense, premio Pulitzer nel 1994, intervistato la scorsa settimana a Roma da Vittorio Zincone per il “Corriere della Sera Magazine”. Due in particolare sono le varianti che consentono alla voce newyorkese di costituire una vera e propria bussola per la società americana: un editore “puro” e assolutamente invisibile e i cosiddetti “fact checkers”, i controllori dei fatti. Il primo è la S.I. Newhouse, controllata della Condè Nast, lo stesso gruppo che possiede “Vogue”, che, secondo quanto dice il direttore, non proferisce parola riguardo la linea editoriale del giornale. Certo, tradizionalmente il “New Yorker” è un foglio conservatore, vicino ai repubblicani, seppur senza sostenerli incondizionatamente. Con l’avvento di Remnick si è verificato, però, il primo cambio di rotta, anche se in molti, negli States, ricordano l’appoggio che il direttore offrì a Bush al momento della proclamazione della guerra all’Iraq, per la presenza in territorio iracheno delle fantomatiche e mai scovate armi di distruzione di massa. “Ammetto d’aver sbagliato – dice Remnick nell’intervista per il Corriere della Sera Magazine – ma ora è facile dirlo. I giornalisti si basano su fonti attendibili. Persino Saddam lasciava credere di avere quelle armi. Ci metta pure che i rapporti dell’intelligence furono manipolati”. Ed, infatti, quelle armi non furono mai trovate, “ma allora non sapeva niente nessuno”, continua Remnick.
Tornando ai “segreti” del “New Yorker”, però, il secondo si chiama “fact checkers”, ossia controllori dei fatti, delle notizie. “Ho una squadra di venti ragazzi di circa vent’anni, ben istruiti, che controllano ogni riga riportata dai giornalisti e dagli scrittori”. Questi ragazzi, spiega ancora il direttore, setacciano letteralmente ogni articolo, ma anche fumetti e poesie inedite pubblicate dal giornale; telefonano alle persone citate negli articoli, una a una, chiedendo se abbiano realmente detto ciò che viene riportato. Si tratta di una vera e propria macchina della verità, della quale necessiterebbe qualsiasi redazione. Il team richiama persino le fonti anonime che informano il giornale, quelle della Casa Bianca e dei Servizi Segreti, e questi confermano o meno ciò che viene loro attribuito, nonostante la necessità di restare senza nome. “Qualche smentita arriva lo stesso – ammette Remnick – ma quei ragazzi sono un investimento azzeccato. Meglio di certi subprime”. È un giornale tradizionalmente conservatore, si diceva, il “New Yorker”, anche se negli ultimi anni si avvicinato all’area democratica, appoggiando la candidatura di Kerry, nel 2004, contro Bush, anche se non è servito a granchè. Il foglio della Grande Mela è anche quello che due settimane fa ha riservato ben otto pagine al fenomeno Grillo, con un’inchiesta, dal titolo “Beppe’s inferno”, portata avanti da una delle firme più prestigiose, Tom Mueller, e richiamata addirittura in prima pagina. “Tra i comici [americani] quello che mi sembra più simile a Grillo è John Steward, che sfotte ipocrisie e convenzioni di entrambe le parti politiche. Ma lui non ha mai portato nessuno in piazza. Forse, allora, Grillo ricorda più certi giovani degli anni Sessanta passati dalle performance satiriche all’impegno politico”.
È divenuto filo-democratico, in sostanza, uno dei giornali conservatori per eccellenza. E proprio sulle primarie del partito democratico (“se i democratici non riescono a vincere queste elezioni…”), Zincone domanda a Remnick che idea si sia fatto riguardo allo scontro, ormai entrato nel vivo, tra Barack Obama e Hillary Clinton. “La forma più deleteria di giornalismo è quella della previsione”, dice. Visto come andò in occasione della guerra in Iraq, meglio non sbilanciarsi. (Giuseppe Colucci per NL)