Il bene giuridico tutelato con la fattispecie di cui all’art.494 c.p. è la pubblica fede, che può essere concretamente lesa da qualsivoglia atto, doloso o colposo, di per sé idoneo a trarre in inganno, circa la vera essenza di una persona fisica, o sulla sua identità o attributi sociali. Poiché lo strumento rappresentato dalla rete telematica consente, per come è strutturalmente configurato ed è fattivamente operativo nella dinamica delle relazioni sociali(è cioè, di per sé, capace di rivolgersi ad un’indiscriminata moltitudine di utenti potenziali, oltre che concreti), di porre in essere condotte idonee a trarre in inganno più di un unico destinatario determinato (non solo: il danno potrebbe rivelarsi capace di una crescita indiscriminata e potenziale in pochissimo tempo), così il legislatore ha ravvisato in esse l’idoneità a ledere anche la fede pubblica, e non solo quella privata, che legittima il diritto alla tutela civilistica del nome. Consumandosi il reato de quo, con l’induzione di taluno in errore, nel caso esaminato dalla Corte, il soggetto tratto in inganno non è il fornitore del servizio di posta elettronica (a questo riguardo, nulla vale obiettare in ordine alla possibilità di utilizzo, nel creare un account di posta, di un nome di fantasia), bensì gli utenti della rete, i quali ritenendo di interloquire con una ben determinata persona fisica, in realtà si sono trovati ad avere a che fare con un’altra ben diversa. E’ del tutto irrilevante obiettare che la diligenza richiesta a costoro nell’utilizzo della rete debba essere valutata con riguardo ad un contatto che non si basa sull’”intuitus personae”, bensì sulle prospettate attitudini dell’interlocutore, poiché non è affatto indifferente che il “rapporto descritto nel messaggio”, sia in realtà offerto da un soggetto diverso e da più punti di vista (anche quello sessuale), da quello che appare offrirlo. E’ inoltre il caso di aggiungere che la ratio ex.art.494 c.p. prevede il fine di recare – con sostituzione della persona – un danno all’offeso dal reato, danno che , nel caso de quo verificatosi e tutelato con il reato di diffamazione, e che si concretato nella subdola inclusione dell’offesa in una corrispondenza idonea a lederne l’immagine e la dignità. (Paolo Masneri per NL)