Era il gennaio 1994 e l’allora imprenditore televisivo Silvio Berlusconi, con un videomessaggio che avrebbe fatto il giro mondo e sarebbe presto entrato nella storia della tv, della politica italiana e avrebbe rappresentato il biglietto d’ingresso nella Seconda Repubblica, annunciava la sua “discesa in campo”, il suo ingresso in politica.
Al di là della facciata da imprenditore di grande successo, Berlusconi, con il ciclone Tangentopoli, aveva perso molti appoggi politici, aveva visto emigrare, letteralmente fuggire a gambe levate dal paese coloro che nei lustri precedenti gli avevano consentito, con qualche aiutino, di allargarsi fino a diventare, in un vuoto legislativo, l’unico editore televisivo cui era permesso trasmettere a livello nazionale e avere più di due reti. Quel Berlusconi era un uomo spaventato dall’idea che i cinquemila miliardi di debiti che attanagliavano la sua azienda, la Fininvest, e che gli avevano fatto perdere il sonno, lo avrebbero presto portato sul lastrico, senza amici cui appigliarsi e senza leggi a supporto. Quell’uomo, consigliato dagli allora fidi bracci destri Dell’Utri e Previti, aveva compreso che se non ci fosse entrato lui in politica, se non ci avesse messo la sua di faccia, probabilmente avrebbe perso tutto. Il Berlusconi di ieri 8 novembre 2011, quello che guardava con sguardo pietrificato il tabellone della Camera fermarsi a 308 votanti e che scriveva sul suo taccuino che otto dei suoi lo avevano tradito, era un uomo stanco, provato dall’età, dalle continue pressioni, da uno stile di vita ai limiti, da una situazione politica ed economica che lo indicava come principale artefice del disastro italiano, come simbolo di un paese finito sulle bocche dei cittadini stranieri e sulle pagine dei loro giornali come emblema della mala gestione e del mal costume. Era un signore che, mentre guardava la sua maggioranza sgretolarsi e il suo paese soffrire come in poche occasioni precedenti, con la lucidità che gli restava, confabulava coi suoi e ipotizzava su come poter uscire, ancora una volta, da una situazione che per qualunque uomo normale in qualsiasi paese civile non avrebbe avuto via d’uscita. Quell’anziano signore, probabilmente, pensava anche a cosa ne sarebbe stato delle sue aziende, del futuro dei suoi figli, della sua progenie. Già, perché è indubbio che negli ultimi diciassette anni, e ancor di più negli ultimi otto, dalla Legge Gasparri in poi, il fiore all’occhiello delle sue proprietà, Mediaset, la tv privata generalista, era cresciuta in maniera esponenziale, moltiplicando i dividendi, giovandosi di un trattamento particolare riservatole dalla maggioranza di governo guidata dal suo guru e padrone. La legge salva Rete 4, le sovvenzioni per i decoder, l’aumento dell’IVA per contrastare Sky, le frequenze del dividendo interno regalate con un beauty contest, un concorso di bellezza e, ancora, l’improvvisa predilezione degli investitori per i canali Mediaset piuttosto che per lo scheletro, per ciò che restava di una RAI svuotata del suo significato e del suo ruolo pubblico, avevano garantito all’azienda del Presidente una prosperità che contrastava con la perdita vertiginosa di ascolti, con i soldi persi in investimenti sbagliati (vedi Endemol), fino a garantire al suo titolo il giudizio “buy” da parte delle banche d’affari. Ma quale futuro attende ora Mediaset dietro la porta? Anzitutto, Berlusconi non è ancora crollato definitivamente e lo dimostra la sua storia, che pare quella di Napoleone, fatta di grosse cadute e grandi ritorni, di condanne all’oblio e spettacolari ritorni in scena. Ma se davvero questa dovesse essere la volta decisiva, allora a risentirne sarebbe certamente anche Mediaset. Cerchiamo di immaginare i possibili scenari. Il primo, è che Berlusconi lasci e ci sia un rimpasto di governo, con una coalizione simile e con Alfano, delfino del Premier, alla guida del governo. Tanto per gli investitori quanto per ciò che concerne aiutini legislativi, per Mediaset, non dovrebbe cambiare granché. Continuerà a far fronte alla crisi d’ascolti, ai mutamenti del mercato televisivo nell’era del digitale e della rivoluzione santoriana, ma il beauty contest e l’accordo con Dmt dovrebbero darle ancora un vantaggio sulla concorrenza. Il secondo vede, invece, la comparsa sulla scena di un cosiddetto governo tecnico, che dovrebbe concentrare i suoi sforzi sul risollevamento finanziario e che potrebbe congelare il beauty contest. Per gli investitori sarebbe un duro colpo e lo si è visto ieri, quando Mediaset ha aperto e chiuso la giornata, cruciale per i destini del governo Berlusconi, come titolo con maggiore ribasso. Mentre gli altri titoli balzavano alle stelle, facendo respirare Piazza Affari, il biscione apriva con un -2% e chiudeva con un -2,94%, chiaro sintomo della paura da parte del mercato per le sorti dell’azienda nel dopo-Berlusconi. Senza le distorsioni del mercato, Cologno Monzese sarebbe un’azienda (ormai vecchia come modello industriale) in forte crisi – per via di ascolti, investimenti e costi per il passaggio al digitale – e senza il Pdl al governo a vegliare sulla sua salute rischierebbe di restare schiacciata nel baratro della crisi. Terzo ed ultimo scenario, il più incerto. Quello che Berlusconi ha prefigurato ieri, ovvero le elezioni anticipate, da tenersi a gennaio o febbraio, quindi immediatamente. Il centro-sinistra non ha un candidato premier, non ha una coalizione, è stata presa alla sprovvista, nonostante aspettasse questo momento da un anno (anzi, da una vita). Berlusconi, quindi, ci proverebbe, o ricandidandosi o proponendo un suo uomo di fiducia. A quel punto, nonostante la necessità di un cambio al vertice sembri lapalissiana, il comportamento degli italiani, nella morsa del marasma, sarebbe imprevedibile. E il futuro di Mediaset anche. (G.C. per NL)