“L’ufficio, ai fini del registro, passa dalla tassazione del valore venale ad una tassazione matematica, non valida certamente per il venditore perché non tiene conto delle scritture contabili, degli atti aventi data certa, delle risultanze derivanti da ispezioni ed altro ancora; tiene invece conto degli utili futuri, aspetti questi che non interessano più la parte venditrice”.
Piuttosto lineare il convincimento attraverso il quale la terza sezione della Commissione Tributaria Provinciale di Milano, con la sentenza n. 202/2010, ha annullato un avviso di accertamento riguardante la maggiore plusvalenza emesso nei confronti di un contribuente a seguito di un operazione di cessione d’azienda rettificata dalla competente Agenzia delle Entrate. Nel caso in esame, infatti, l’Ufficio rivedeva il valore della compravendita liquidando una maggiore imposta di registro e, a seguito dell’adesione di parte acquirente, accertava per l’importo concordato maggiori imposte dirette liquidate sulla relativa dichiarazione dei redditi del dante causa. In buona sostanza, attraverso tale incrocio, l’Amministrazione finanziaria è riuscita nel tempo a consolidare un modus operandi che ha consentito all’Erario – per operazioni del genere – di prendere due piccioni con una fava, con il benestare di buona parte della giurisprudenza di legittimità. L’argomentazione della Corte milanese, però, sembrerebbe aprire una breccia in favore dei vessati cittadini, rivedendo – nell’ambito dell’interpretazione della vigente normativa – il patrimonio delle presunzioni nella disponibilità del Fisco. In proposito, nell’arresto in commento si affermava che “La tassazione di un atto di compravendita, è cosa ben diversa se analizzata dal punto di vista del compratore, o di chi vende l’attività commerciale” e, nonostante l’ufficio accertatore si fosse detrminato per la rettifica del valore portato dal negozio giuridico rilevante ai fini dell’imposta di registro e parte acquirente – magari invitata dai meccanismi premiali di riduzione delle sanzioni – avesse aderito all’accertamento, tale valore non poteva “(…) essere assunto tout court quale elemento di prova nell’ambito degli accertamenti ai fini dell’imposta sui redditi”. L’adita Commissione, infatti – nel caso in esame – chiosava sulla circostanza in base alla quale la differente entità economica delle conseguenze dell’accertamento che interessava le parti (per chi vende, difatti, è noto che l’aliquota applicabile sulla plusvalenza sia ben maggiore rispetto a quella ai fini del tributo indiretto) della compravendita oggetto di rettifica, lasciava libero ogni contribuente coinvolto nel procedimento di definire «(…) con l’ufficio accertatore la propria posizione, senza che la definizione del valore eseguita sulla posta “avviamento” da parte del compratore» potesse pregiudicare parte venditrice. Il Collegio intervenuto, quindi, riconosceva che sul prezzo stabilito per la compravendita fosse plausibile per il cedente far valere contingenti condizioni di difficoltà economica (calo di fatturato negli ultimi anni antecedenti la vendita) che lo avessero convinto a cedere l’azienda (ma per un ramo della stessa il discorso non cambia) verso un corrispettivo inferiore a quello di mercato. Pertanto, posto che «(…) l’operato dell’ufficio è costituito da meri indizi o da presunzioni che non hanno i requisiti della gravità, precisione e concordanza, non validi per il venditore (…), gli accertamenti presuntivi basati sull’applicazione automatica della definizione di maggiori valori ai fini del registro, non possono trovare validità anche sul versante delle imposte dirette». All’evidenza, la motivazione dipanata dalla Commissione Tributaria Provinciale di Milano raggiungeva altresì l’effetto di conferire un nuovo vigore allo strumento della prova contraria azionabile dall’imprenditore in opposizione alla pretesa erariale, costituita dalle scritture contabili che correttamente rechino l’incasso del prezzo della compravendita in conformità al valore indicato dalle parti nell’atto. Pur rimarcando l’importanza dell’arresto in questione, occorre essere prudenti nell’anticipare i festeggiamenti per il mutato filone esegetico. In merito, per completezza d’informazione, occorre evidenziare che la giurisprudenza di legittimità non ha ancora trovato un indirizzo unitario, anzi, spesso e volentieri, si spende a contrastare la tesi sostenuta dal Collegio milanese. In ultimo, giova ricordare la sentenza n. 5078 del 02/03/2011, nella quale gli Ermellini stabiliscono la legittimazione dell’Amministrazione finanziaria «(…) a procedere in via induttiva alla rettifica della plusvalenza patrimoniale relativa al valore dell’avviamento, realizzata a seguito della cessione dell’azienda, sulla base dell’accertamento di valore già effettuato ai fini dell’imposta di registro», sostanzialmente in linea con il precedente costituito dalla sentenza n. 22793/2011 che, vieppiù, confuta il valore di prova contraria costituito dalla veridicità delle scritture contabili. Timidamente, è solo con la sentenza n. 7023 del 24/03/2010 che Piazza Cavour (invero, con una pronuncia piuttosto laconica) ha motivato una differente interpretazione affermando che «(…) non sempre il valore dell’avviamento, accertato ai fini dell’imposta di registro, rileva ai fini dell’Irpef, se il contribuente prova di aver venduto ad un prezzo inferiore». Insomma, di fronte ad un talo coacervo di pronunce, sarebbe consigliabile a tutti gli imprenditori impegnati in una compravendita assoggettata ad imposta di registro interpellare l’Agenzia delle Entrate al fine di determinare il valore dell’azienda da cedere. Ma questa, purtroppo, nasce e muore come una semplice ed irreale provocazione che ancora una volta evidenzia la totale disorganicità del nostro ordinamento fiscale e tributario. (S.C. per NL)