Cassazione sull’utilizzazione illecita di software privo di licenza d’uso, all’interno degli studi professionali

La sentenza n. 25104 depositata il 19 giugno scorso ha giudicato penalmente rilevante tale condotta.

Con la sentenza n. 25104 depositata il 19 giugno scorso la Suprema Corte ha considerato penalmente rilevante, ex art. 171 bis LDA, l’uso di software nell’ambito di uno studio professionale, in assenza delle relative licenze d’uso, anche se la riproduzione era finalizzata al “fine di profitto” e non anche “al fine di lucro”. In questo sta la vera novità. In particolare la Cassazione ha statuito che “a seguito della modifica del primo comma dell’art. 171 bis LDA (apportata dall’art. 13 della legge 18 agosto 2000, n. 248, cd. Legge Antipirateria) non è più previsto il dolo specifico del fine di lucro ma quello del fine di trarre profitto”: si è quindi determinata un’accezione più vasta che non richiede necessariamente una finalità direttamente patrimoniale e che amplia i confini della responsabilità dell’autore.  Nella specie, “la detenzione e l’utilizzo di numerosi programmi software all’interno di uno studio professionale, illecitamente riprodotti, rende manifesta la sussistenza del reato contestato, sotto il profilo oggettivo e soggettivo". La Corte, inoltre, ha marginalmente affrontato la possibilità di applicare al caso in esame l’art. 174 ter LDA, ai sensi del quale l’abusivo utilizzo di programmi illecitamente riprodotti è punito con la sola sanzione amministrativa. Ebbene, la pronuncia su questo aspetto – richiesta solo in sede di ricorso per cassazione – non c’è stata poiché nel caso di specie le parti, con il patteggiamento della pena ex art. 444 c.p.p., avevano qualificato il fatto come reato ai sensi dell’art. 171 bis LDA. La Corte ha infatti precisato che “l’applicazione della pena su richiesta delle parti è un meccanismo processuale in virtù del quale l’imputato ed il pubblico ministero si accordano sulla qualificazione giuridica della condotta contestata, sulla concorrenza delle circostanze, sulla comparazione delle stesse, sull’entità della pena, su eventuali benefici. Da parte sua il giudice ha il potere-dovere di controllare l’esattezza dei menzionati aspetti giuridici e la congruità della pena richiesta e di applicarla dopo aver accertato che non emerga in modo evidente una delle cause di non punibilità previste dall’art. 129 c.p.p. Ne consegue che, una volta ottenuta l’applicazione di una determinata pena ex art. 444 c.p.p., l’imputato non può rimettere in discussione profili oggettivi o soggettivi della fattispecie perché essi sono coperti dal patteggiamento”. (M.P. per NL)

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