Cassazione. Per i contributi illecitamente fruiti dall’impresa risponde anche il commercialista che ha redatto la domanda utilizzando false dichiarazioni

Con la sentenza n. 40107 depositata in cancelleria il 12 novembre 2010, la seconda sezione penale della Corte di Cassazione interviene sul tema del concorso nel reato di truffa aggravata per il commercialista che presta il fianco ad artifizi e raggiri per far ottenere benefici economici ad un proprio cliente.

Nel caso di specie, un’impresa vinicola aveva ottenuto un ingente aiuto pubblico in termini di finanziamento agevolato, erogato dall’allora Ministero delle Attività Produttive, redigendo la domanda con l’ausilio di un professionista compiacente e spregiudicato che non aveva esitato ad intervenire artificiosamente sulla documentazione amministrativa e contabile della società al fine di far corrispondere i parametri di bilancio ai requisiti di accesso previsti per gli stanziati benefici. Dallo svolgimento dei fatti resocontato nell’arresto in commento, si evince che la tattica di difesa per entrambi gli imputati (imprenditore e commercialista) veniva spesa principalmente in direzione di un teatrino processuale nel quale si concretizzava una vera propria navette di reciproche (pretese) responsabilità e colpe, invero piuttosto infruttifera se si considera l’entità della condanna ricevuta dai due personaggi in primo e secondo grado. Da notare, che i giudici di merito avevano applicato al caso la fattispecie dell’art. 640 bis c.p., cioè la massima espressione del delitto di truffa. La norma, infatti, , acuisce la sanzione prevista per chi “(…) con artifizi e raggiri inducendo taluno in errore, procura a se o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno (…)” (art. 640 c.p.), laddove la condotta sia stata strumentale per ottenere “(…) contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, i altri enti pubblici o delle Comunità Europee”, adottando la pena della reclusione da uno a sei anni con procedimento avviabile d’ufficio. Inutile, in terzo grado, il rilievo della difesa degli imputati secondo i quali il Tribunale e la Corte d’Appello avrebbero dovuto – semmai – qualificare il reato ai sensi dell’art. 316 ter, con pena degradata da sei mesi a tre anni, quale “Indebita percezione di erogazioni a danno dello stato”. In tale fattispecie, infatti, parimenti si prevede “(…) l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere (…)” in relazione al conseguimento degli stessi benefici citati nel predetto 640 bis. Purtroppo, proprio su questo punto che forse poteva essere decisivo al fine di poter mitigare la pena inflitta agli imputati, la Cassazione si pronunciava nel senso di ritenere l’eccezione non trattabile in quanto non dedotta con l’atto di appello. Tornando alla sentenza in commento, gli Ermellini esaminavano l’ulteriore motivo di ricorso legato alla prescrizione del reato ascritto all’imprenditore ed al proprio consulente, che facevano quadrato sulla data di presentatone della domanda per accedere ai benefici statali. Sulla scorta dei tempi di durata media di un processo penale, la questione assume pregnante importanza se si considera che l’eccezione di prescrizione – in moltissimi casi – rappresenta proprio la via d’uscita salvifica dell’imputato. Nel caso di aiuti o agevolazioni statali, il ragionamento condotto da Piazza Cavour si dipana dalla considerazione in base alla quale appare ovvio “(…)che nel caso dell’art. 640 bis c.p. l’interesse del reo sia rivolto al conseguimento delle erogazioni indebite, che definisce il momento della fattispecie compiuta”, dunque, a fortiori, “(…) il delitto di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche suddivise in più rate somministrate in tempi diversi è reato a consumazione prolungata giacché il soggetto agente sin dall’inizio ha la volontà di realizzare un evento destinato a protrarsi nel tempo” (cfr. Cass., sez III pen., sent. n. 40107/2010). Su queste questioni il Giudice di legittimità fissava il momento consumativo e del dies a quo del termine di prescrizione della cessazione dei pagamenti. Venendo poi all’ipotesi di concorso del professionista con l’imprenditore nell’integrazione del reato contestato, nulla quaestio, in quanto – per il primo – risultavano accertati gli artifizi ed i raggiri sulla documentazione dell’impresa al fine di soddisfare il cliente, e – per il secondo – la responsabilità si radicava nella sottoscrizione della domanda di accesso ai benefici “taroccata”. I ricorsi degli imputati – riuniti in unico procedimento – venivano pertanto dichiarati inammissibili. (S.C. per NL)

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