Incidente di percorso per Marco Travaglio che vede confermata dalla Terza sezione civile della Corte di Cassazione (sentenza n. 22190/2009) la soccombenza nella causa civile intentata dall’ex giudice Filippo Verde ritenutosi leso da una pubblicazione dell’assaltatore di Annozero.
Infatti, nel suo libro “Il manuale del perfetto inquisito, come delinquere e vivere felici” – edito da Garzanti – il giornalista aveva apostrofato l’ex magistrato come persona più volte inquisita e condannata, mentre nella sua storia processuale non si scorgono condanne definitive. La Suprema Corte, ultimamente particolarmente prolifera di pronunce in merito a libertà di stampa, diritto di cronaca e di critica, ha ritenuto di condannare Travaglio, ovviamente in solido con l’editore, alla refusione delle spese processuali stimate in 5000 euro, contro una richiesta iniziale di parte attrice centuplicata rispetto a quanto effettivamente liquidato in sentenza. La motivazione si dipana dal consueto bilanciamento del principio sancito dall’art. 21 della Costituzione. Piazza Cavour ricorda che quando si riporti in forma giornalistica una verità giudiziaria è obbligo intendere la libertà di commentare i fatti compressa dalle limitazioni enunciate nella pronuncia stessa. In questi casi, dunque, non ci può essere spazio per oltrepassare la continenza di quanto statuito. Ribadiscono in proposito gli Ermellini che “L’esimente anche putativa del diritto di cronaca giudiziaria prevista dall’articolo 51 C.p. va esclusa allorché manchi la necessaria correlazione tra il fatto narrato e quello accaduto, il quale implica l’assolvimento dell’obbligo di verifica della notizia e, quindi, l’assoluto rispetto del limite interno della verità oggettiva di quanto esposto, nonché il rigoroso obbligo di rappresentare gli avvenimenti quali sono, senza alterazioni o travisamenti di sorta, risultando inaccettabili i valori sostitutivi, quale quello della verosimiglianza, in quanto il sacrificio della presunzione di innocenza richiede che non si esorbiti da ciò che è strettamente necessario ai fini informativi" (Cassazione, III sez. civile, sent. n. 22190/2009). Risulta perciò consequenziale che, se Verde non ha mai riportato alcuna condanna definitiva (e per definitiva, lo si ricorda soprattutto a Travaglio, s’intende passata in giudicato e non solamente pronunciata da un giudice la cui statuizione sia ancora impugnabile), non potrà mai essere sussumibile nell’ambito del principio di “libera interpretazione dei fatti da parte del cronista” (Cassazione, V sez. penale, sent. n. 40408/2009) il trasformare surrettiziamente un indagato in condannato. Nell’ambito del procedimento in esame, ulteriormente, non ha retto la replica proposta nel ricorso del giornalista, in base alla quale, benché la notizia fosse “astrattamente non vera”, sarebbe stata comunque “priva di portata lesiva, essendo la realtà, nella sua sostanza identica a quella descritta nel manuale". D’altronde, come ci insegnano fin dall’università, in diritto le parole sono macigni e devono essere utilizzate in maniera appropriata nella descrizione di un fatto giudiziario. Invero, Travaglio è frequente ad imprecisioni giuridiche e talvolta pare di non aver avuto ancora notizia della copernicana riforma del nostro diritto processuale penale che, ventuno anni or sono, ha trasformato il rito da inquisitorio ad accusatorio. Il sistema, dunque, conosce ora la figura dell’indagato e non più (e per fortuna) quella dell’inquisito: assicuriamo che la differenza è sostanziale e perciò consigliamo l’edificante lettura di qualche manuale processual-penalistico onde evitare di incorrere nuovamente in queste sonore tirate d’orecchie. A tal proposito, ci sia consentito concludere sottolineando – ahi noi – la frequente inadeguatezza professionale del cronista giudiziario, il quale, considerato l’alto indice di deperibilità della notizia, concentra l’attenzione nelle prime fasi della vicenda processuale, sui primissimi movimenti della macchina giudiziaria (ed il collaboratore di Annovero ci pare su questo abbia costruito, con maestria e scaltrezza, la propria popolarità). All’opinione pubblica appare, inevitabilmente, che l’informazione di garanzia equivalga all’imputazione, la misura cautelare alla condanna. Dopo questi prodromi dell’indagine, ben lontani dalla sentenza, l’attenzione si affievolisce ed ai cittadini appare che il processo, non ancora istauratosi con tutte le garanzie del caso, si sia già celebrato. Quando poi giunge, magari dopo anni, la sentenza definitiva di proscioglimento, la condanna è già stata (quantomeno da un punto di vista mediatico) eseguita. L’effetto che un quadro così delineato genera sulla autentica conoscenza critica della notizia appare scoraggiante. E’ fin troppo facile, in un sistema del genere, canalizzare la cronaca giudiziaria e per il suo tramite l’opinione pubblica verso alcuni processi e non altri, verso alcune risultanze probatorie di un processo e non altre, impedendo o comunque alterando la corretta valutazione e l’efficace controllo che la prima dovrebbe garantire alla seconda. Comunque, non vorremmo essere fraintesi e desideriamo puntualizzare che la condanna di un giornalista per questioni inerenti l’esercizio della professione non deve essere mai salutata da applausi o commenti compiacenti: chi ne esce sconfitto è soprattutto l’universo del giornalismo che lascia sul campo un altro pezzetto della propria credibilità. Ultimamente, non ci pare ci sia troppo da scialare in tal senso. (Stefano Cionini per NL)