Un passo avanti e due indietro. Il decreto Bersani (del 2006) liberalizza, ma Ordine degli Avvocati e Cassazione censurano la campagna pubblicitaria dell’avvocato proposta attraverso slogan ad effetto, reputati troppo suggestivi ai fini della correttezza e del decoro professionale.
La frase ad effetto incriminata, nel caso in esame, consisteva nientemeno che nell’utilizzo – evidentemente reputato fin troppo disinvolto – dell’equivoco acronimo A.L.T. riportato nella targa di uno studio legale associato a significare “Assistenza legale per tutti”. Immediato lo sconforto che pervadeva la morale e l’alto senso del decoro di un collega, il quale, presa visione della disdicevole campagna pubblicitaria, stigmatizzava tempestivamente la deplorevole pratica all’Ordine degli Avvocati di competenza che incardinava immediato procedimento disciplinare sulla scorta dell’offerta professionale confezionata dagli “eversivi” iscritti che nel pacchetto proposto al pubblico sponsorizzavano addirittura un primo approccio con il cliente gratuito (forse, ingenuamente, senza considerare che oggi come oggi sarebbe per molti professionisti del diritto una prospettiva estremamente gratificante quella di limitare la gratuità alla prima consulenza). L’istruttoria avviata si concludeva con l’irrogazione della sanzione disciplinare prevista dall’art. 38, comma 1, R.D.L. 1578/1933 (della censura), in barba a chi possa ancora ritenere superata una disciplina risalente ad appena una ottantina di anni fa che ancora (come si vede) ha tanto da dare (evidentemente in termini di valore aggiunto) all’ordinamento forense. Nel giro di poco più di un anno interveniva anche la massima espressione del Collegio di Legittimità, adita dagli avvocati censurati, che contestualizzava con maggiore efficacia l’intendimento del Consiglio Nazionale Forense – quale organo di secondo grado rispetto al Consiglio dell’Ordine procedente – delineando le linee guida da seguire per la pubblicità dei servigi forensi. Gli avvocati sottoposti a procedimento disciplinare invocavano innanzi agli Ermellini l’applicazione dell’art. 2 D.L. n. 223/2006, convertito con la L. 248/2006 (c.d. Legge Bersani), che aveva abrogato i divieti di pubblicità informativa relativa ad attività libero – professionale, consentendo al legale di fornire informazione al pubblico sull’attività svolta nell’ambito delle normali regole di correttezza e decoro. Proprio qui si annidano le perplessità di dottrina (collega denunciante) e giurisprudenza (consiglieri e giudici di terzo grado). Infatti, le Sezioni Unite della Cassazione (collegio competente a decidere sui provvedimenti afferenti la deontologia professionale motivati dal CNF), con la sentenza n. 23287/2010 in commento, depositata in cancelleria lo scorso 18 novembre, chiarivano preliminarmente che – nell’ambito dell’art. 38 del R.D.L. 1578/1933 citato – potevano essere sottoposti a procedimento disciplinare gli avvocati «(…) colpevoli di abusi o di mancanze nell’esercizio della loro professione o comunque di fatti non conformi alla dignità ed al decoro professionale (…)», aprendo il capitolo relativo ai “motivi della decisione” con una generalizzata legittimazione d’intervento degli Ordini locali sul contegno dei propri iscritti configurabile «(…) non mediante un catalogo di ipotesi tipiche, ma mediante clausole generali o concetti giuridici indeterminati (…)» (cfr. Cass., SS. UU., sent. n. 23287/2010). Riconosciuto l’ampio potere discrezionale dell’Istituzione forense tale da agevolare un’interpretazione così estensiva della legge professionale al punto che pare possa addirittura trovare cittadinanza – negli argomenti del giudice di terza istanza – il potere di ritenere antigiuridico o contrario al decoro ed alla dignità del professionista una facoltà riconosciuta dalla legge (la pubblicità) all’iscritto, Il Supremo Collegio entrava nel merito delle contestazioni mosse agli avvocati in giudizio richiamando il significato “più autentico” del precetto normativo. In proposito, lapidaria l’affermazione in base alla quale non poteva essere tacciato di irragionevolezza il precetto deontologico individuato dall’organo professionale – quale fattispecie sanzionabile dal punto di vista disciplinare – in base al quale pare proprio si tradisca lo spirito pubblicitario di un’eventuale eficace iniziativa di rilancio dell’attività professionale, affermando la bontà della determinazione dell’Organo territoriale che reputava vietati «(…) slogan(s) evocativi e suggestivi, privi di contenuto informativo professionale e quindi lesivi del decoro e della dignità professionale». Ciò motivato, non ci rimane che mettere bene in guardia la vessata categoria degli avvocati (forse in procinto di essere riformata) dall’intenzione di affidarsi ad un esperto di marketing al fine di rilanciare le (oramai) precarie sorti dello studio. (S.C. per NL)