Cassazione: L’avvocato colpito da sanzione disciplinare non ha diritto alla privacy. Principio estendibile ad altri professionisti

L’avvocato che vede pubblicata su di un giornale la notizia relativa alla sanzione disciplinare inflittagli dal proprio Ordine Professionale, non può appellarsi al diritto alla riservatezza (personale e degli atti del giudizio che lo riguarda) ai fini di esperire una tutela risarcitoria.

Così ha deciso  la Corte di Cassazione con la sentenza n. 2819 depositata in Cancelleria lo  scorso 29 settembre. Nel caso in esame il procedente era un avvocato del  Foro di Trieste che conveniva in giudizio la società editrice del giornale  "Il Piccolo". Nei motivi di doglianza del professionista, si rinveniva, in primo luogo, una  richiesta di risarcimento per danni patiti a cagione dei reati di "Abuso d’ufficio" ex 323 c.p., "Rilevazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio"  ex 326 c.p., in quanto la notizia del provvedimento emesso dal competente  Consiglio dell’Ordine degli Avvocati nei suoi confronti, era apparsa sul  quotidiano "il Piccolo" il 27 gennaio 1999 e lui ne era venuto a conoscenza  nelle forme di rito il successivo 7 aprile; secondariamente, nell’atto di  citazione, si invocava a supporto della pretesa anche l’integrazione del reato di diffamazione ex art. 595 c.p. (evidentemente con l’aggravante della diffusione a mezzo stampa del comma 3), in quanto nell’articolo si faceva  discendere la sanzione inflittagli dall’esito del procedimento avviato da una non meglio specificata sua "famosa cliente", laddove l’addebito non riguardava quella vicenda per la quale l’avvocato ne era uscito prosciolto;  ulteriormente, il professionista riteneva integrato il reato di "Rivelazione del contenuto di documenti segreti" ai sensi dell’art. 621 c.p. Fin qui le questioni inerenti la pretesa commissione di reati per i quali l’attore riteneva lesa la propria reputazione, ma c’è di più: difatti, nella chiamata in giudizio si faceva riferimento anche ad un diritto alla riservatezza in senso squisitamente civilistico, invocando la tutela di quella che all’epoca dello svolgimento dei fatti era la legge 675/1996 – Legge sulla privacy – oggi trasposta nel d.lgs. 196/2003, "Codice in materia di protezione dei dati personali". Valore della causa innanzi al Tribunale di Trieste: £ 500.000.000, ovvero la quantificazione del preteso nocumento subìto richiesta alla società editrice del quotidiano.Tutte le pronunce successive, fino al terzo grado, vedevano soccombere la  parte attrice (che nel frattempo aveva diminuito la richiesta a circa 51.000 Euro) per gli stessi motivi che puntualmente confermavano i giudici di legittimità e sui quali, a questo punto, conviene soffermarsi. In via generale, il principio in base al quale gli atti processuali dei  quali il giornalista viene a conoscenza possono essere pubblicati, resiste anche nella più recente giurisprudenza confortato dalla livrea protettiva del diritto di cronaca. Infatti, eventuali abusi che dovessero essere stati perpetrati al fine di far approdare la scottante velina sulle pagine della stampa, devono essere imputate al solo ufficio estensore. Effettivamente, alla stregua delle disposizioni di legge rintracciabili nei codici di rito e nella legislazione speciale, l’orientamento sembra corretto anche se lo si
considera in funzione del principio di ragionevolezza oggetto di molte pronunce costituzionali nelle quali si cerca un bilanciamento tra interessi contrapposti: nel caso specifico tra il diritto-dovere di informare della stampa ed il diritto alla privacy. Invero, elemento di discrasia tra l’esaminando giudizio ed altri dello stesso tenore, consta proprio nel fatto che una parte processuale è un avvocato iscritto ad un Ordine Professionale, il cui Consiglio, sebbene in seduta segreta come consuetudine, ha irrogato una sanzione sottoposta alle forme di pubblicità legale previste dall’ordinamento giudiziario e forense. Tutto ciò considerando, alla convenuta non può addebitarsi la illegittima appropriazione della notizia, anche perché questa può essere facilmente rinvenibile dalla consultazione, nelle forme prescritte, delle decisioni del C.O.A. coinvolto, tanto più che – nel caso di specie – l’attore non si  sofferma a provare i fatti, asseriti come illeciti, per mezzo dei quali il giornalista avrebbe appreso la notizia. Così gli ermellini che con queste lapidarie affermazioni, chiudono la parentesi della segretezza, confermando il giudizio di primo grado. Concludendo, ci pare di poter sottolineare l’estrema caoticità della  controversia. Per quello che ne sappiamo oggi, la domanda giudiziale è stata  proposta solo in sede civile: ora, in un giudizio di risarcimento in tla sede, se non si provano i fatti posti a fondamento del danno "ingiusto" cagionato  all’attore, difficilmente si può trovare accolta una qualsiasi pretesa. Il  professionista, ha fondato le proprie doglianze, sembrerebbe quasi in via  subordinata, sulla legge sulla privacy, evidentemente ben sapendo che, nonostante il C.O.A. si riunisca in segreto, le decisioni che si riversano  su di un proprio iscritto sono rese pubbliche dal ricordato sistema di  pubblicità legale. Orbene, escluso il fondamento della violazione di una  regola di riservatezza non invocabile, forse sarebbe stato meglio se il nostro professionista si fosse costituito parte civile di un procedimento penale per i reati dei quali, comunque, non ci pare abbia dimostrato la concreta integrazione. In merito, un giudice civile non potrà mai trarre i fondamenti di un risarcimento del danno patito dalla persona offesa da uno o più delitti se non può (questo il nostro ordinamento processuale) pronunciarsi in merito alle responsabilità penali del convenuto. E’vero, ci sono dei potenziali collegamenti tra i due giudizi, ma, nel caso concreto, ci pare si sfiori la lite temeraria. Ora ci si attende che la decisione della Suprema Corte trovi estensione in problematiche similari attinenti a professionisti di altra materia (ivi compresi i giornalisti). (Stefano Cionini per NL)

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