Cassazione: altro stop all’utilizzo disinvolto della figura dell’abuso del diritto

La prova sia del disegno elusivo sia delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici (…) perseguiti solo per pervenire ad un determinato vantaggio fiscale incombe sull’Amministrazione Finanziaria”.

Una pronuncia che pesa come un macigno, quella resa dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 20030/2010, qui citata in merito al proprio principio cardine. L’effettivo risparmio d’imposta conseguito con l’utilizzo distorto di negozi privatistici, deve essere dedotto e provato dall’A.d.E. In proposito, l’arresto in questione, oltre che limitare in casi del genere il potere sanzionatorio del Fisco, potrà costituire efficace precedente giurisprudenziale nella disponibilità dei contribuenti impegnati a contestare tali pretese erariali. Con questa sentenza, dunque, si vogliono ridisegnare i confini del c.d. abuso del diritto, fino ad oggi norma in bianco (soprattutto in merito alla sua applicazione) che tante soddisfazioni ha reso alle Commissioni Tributarie (nondimeno all’Erario), terrore dei contribuenti più creativi, non ricevendo nell’ambito dell’ordinamento giuridico nazionale una vera e propria definizione, benché lo percorra – per determinate materie – trasversalmente. Nel diritto tributario (ancora oggi orfano di una riforma organica, esempio d’intangibilità delle prerogative impositive dello Stato), la regola nella quale tale figura trova cittadinanza è l’art. 37 bis del D.P.R. 600/1973 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi) che delinea soprattutto gli effetti dell’abuso del diritto nella sibillina formula del primo comma, prescrivendo l’inopponibilità all’Amministrazione Finanziaria di atti, fatti e negozi “privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti”. Dottrina e giurisprudenza sono da tempo impegnate per tracciare una definizione omogenea della figura giuridica in parola, convergendo sulla circostanza che vede estrinsecarsi l’abuso del diritto nell’anomalo esercizio di una facoltà soggettiva finalizzata al raggiungimento di scopi che esulano da quelli previsti dalle norme dell’ordinamento giuridico. Il caso all’esame della Suprema Corte, infatti, consisteva nella predisposizione da parte di un allevatore di una serie di contratti agrari (nello specifico di soccida) con altri imprenditori agricoli proprietari di bestiame, al fine di poter aumentare le quote di produzione del latte assegnate al soccidante senza necessità che questo acquistasse nuovi capi (la causa – infatti – è associativa). Prescindendo del tecnicismo della questione che qui poco importa, l’Amministrazione finanziaria contestava proprio l’illiceità dell’adozione di siffatto strumento privatistico grazie al quale veniva asserito un ingiusto vantaggio al contribuente, comportante un ricalcolo in pejus dell’autoliquidazione delle imposte. Sulla base di un tale ragionamento, l’Agenzia emetteva l’avviso di accertamento ma senza che riuscisse, a detta della Cassazione che ha annullato il provvedimento proprio per questo motivo, a provare l’elusione fiscale contestata all’allevatore soccidante. “Nulla viene specificatamente dedotto né documentato” – si legge nella pronuncia – “dall’Agenzia in ordine al vantaggio fiscale che sarebbe derivato alla società accertata dalla descritta manipolazione degli schemi contrattuali classici. Mentre è pacifico tra le parti che la stessa (la soccida, n.d.r.) sia stata adottata al fine economico/amministrativo di giustificare la diversa allocazione della produzione (…)”. Proseguendo, gli ermellini ammoniscono l’Amministrazione finanziaria per aver dedotto esclusivamete la scarsa economicità dell’operazione negoziale per il soccidante e l’inadeguata prova dell’inerenza dei costi verso il soccidario, che però devono essere ritenuti elementi propri del tipo di regolamento d’interessi prescelto dalle parti per il quale non si è fornito prova dell’intrinseco spirito abusivo, o meglio, dell’esclusiva volontà di ottenere un risparmio d’imposta. (S.C. per NL)
 

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