Cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia. La RAI dovrà continuare ad essere finanziata con i soldi dei contribuenti italiani e nemmeno Antonio Catricalà, il paladino delle liberalizzazioni che sembrerebbe di poter dire parlava bene quando era all’Agcom ma in questo caso sembra non rendere giustizia alla propria coerenza, al timone del Dipartimento delle Comunicazioni da qualche mese, non riesce proprio a pensare ad una privatizzazione del servizio pubblico radiotelevisivo.
La proposta della quale ci vogliamo occupare circola da qualche mese e si fa spazio nella discussione in atto per il rinnovo del contratto di servizio tra RAI e Minsero dello Sviluppo Economico, prendendo le mosse dalla rilevata necessità di aumentare il controllo dei cittadini sulla destinazione del canone televisivo (ce ne eravamo occupati anche al tempo del Governo Monti) che – come un camaleonte – potrebbe trasformarsi in imposta generale sui media. Nell’era del digitale, infatti, il Viceministro, nel corso di una recente audizione avuta presso la Commissione parlamentare di vigilanza, avverte ed evidenzia che “In Europa si va abbandonando il concetto di canone a favore di un’imposta generale sui media e questo potrebbe servire da faro di orientamento”, per poi rettificare il tiro subito dopo quando – focalizzando l’attenzione sulla necessità e sull’importanza per lo sviluppo del Paese di continuare a finanziare la Tv di Stato – dichiara che “In Italia esiste il canone e non sono in vista sistemi di finanziamento diversi”, pilotando la replica sull’importanza che tutti corrispondano diligentemente la gabella e precisando di non aver mai espresso “alcuna preferenza per i sistemi di finanziamento del servizio pubblico vigenti in altri Paesi”. Evidentemente l’utilizzo della parola “imposta” in un Paese che, assieme alla pressione fiscale tra le più alte d’Europa, ha un livello di servizi probabilmente non superiore alla media, soprattutto in questo periodo di dichiarazioni dei redditi, salassi fiscali e nuovo redditometro, non è sembrata opportuna da paventare neanche – come si dice – a saldi invariati. Ma tant’è e Catricalà se ne deve fare una ragione e da tecnico (confidiamo che lo sia ancora) deve accettare che ad ogni sua dichiarazione e/o lapsus segua un tam tam mediatico. Piuttosto, dovremmo tutti renderci conto che, comunque la si voglia chiamare ed indipendentemente dalla circostanza che la si liquidi nella bolletta della luce (come accade in Grecia) o la si imponga come tassa sul nucleo familiare da destinare allo sviluppo delle telecomunicazioni (è il caso che vorrebbero sperimentare Austria, Germania, Finlandia, Irlanda, Svezia e Svizzera), in Italia il canone RAI appare ai più un prelievo insopportabile (per molti letteralmente insostenibile). In un momento di crisi, poi, è anche scontato che come cittadini ci si approcci sempre con maggiore fastidio alla campagna di rinnovo dell’abbonamento che, puntualmente, inizia a martellare sulle reti pubbliche i telespettatori ai primi albori dell’autunno. “Ricordati che devi pagare il canone”, ammonimento che – fortunatamente – ci strappa un sorriso se pronunciandolo ci fa tornare alla mente il migliore Massimo Troisi, in coppia il nostro premio oscar Roberto Benigni, alle prese con un insolente predicatore medievale. Il film, che il lettore avrà sicuramente già individuato, è “Non ci resta che piangere”, titolo (e considerazione) quanto mai attuale ancora oggi. (S.C. per NL)