Uno degli argomenti ultimamente più dibattuti nell’ambito dell’evoluzione radiofonica è la contrapposizione tra il broad-casting ed il pod-casting, che tecnicamente è “l’insieme delle tecnologie e delle operazioni relative al download automatico di file di qualsivoglia natura (detti podcast), tramite un’infrastruttura di trasmissione dati e un programma client chiamato “aggregatore” o feed reader”. Sul tema ci sono due scuole di pensiero agli antipodi tra loro, entrambe, va detto, munite di solide argomentazioni di supporto.
La prima (possibilista) considera il podcasting il naturale sbocco della radiofonia 4.0, posto che l’IP è per sua natura più adatto a sfruttare ed esaltare l’on demand che il live streaming. A sostegno, i patrocinatori del pensiero portano il trend positivo di crescita della fruizione dei podcast negli USA e l’atteso grande sviluppo degli smart speaker, che del Personal Option Digital Casting sono il terreno fertile.
La seconda (conservatrice del broad-casting) considera il pod-cast un contenuto non radiofonico, un qualcosa di diverso, assimilabile ad un mero contenuto audio postprodotto. A supporto, i broad duri e puri producono le stesse dissertazioni dei pro pod, ma con un’accezione diversa: è vero che la crescita nell’impiego negli USA c’è, ma è lentissima e difficilmente costituirà un vero pericolo per il broadcasting ancora per molto tempo; semmai lo sarà, visto che la radio è live per definizione. Quanto agli smart speaker, i no-podcast non ne mettono in discussione la predilezione per lo sfruttamento dei personal on demand content, ma che tali device non sono da considerarsi succedanei dei ricevitori radio, essendo degli “assistenti domestici” polivalenti, per cui, semmai, la concorrenza verrà dall’utilizzo degli stessi per ascoltare servizi SOD come Spotify.
Insomma, solo il tempo ci dirà se il broad primordiale sarà ricordato come l’ambiente ancestrale di un futuro pod-radiofonico.