Sbigottimento. È questa la prima reazione che le parole pronunciate ieri dal premier Berlusconi, a margine di una conferenza stampa a Palazzo Chigi, hanno provocato in Italia e all’estero, tra intellettuali, politici, scrittori e gente comune.
Parlando dei risultati “soddisfacenti” ottenuti dal suo governo nella lotta alla criminalità organizzata, il premier s’è lasciato sfuggire l’ennesima, imperdonabile, uscita infelice, in relazione al rapporto tra potere mediatico e potere reale delle organizzazioni mafiose in Italia. In compagnia del titolare del Viminale, Maroni, Berlusconi ha snocciolato un po’ di cifre, apparentemente eloquenti, di quello che è stato l’impegno profuso dalle forze politiche e polizia durante i primi due anni del suo mandato. Dieci miliardi di euro di beni sequestrati, ventidue dei trenta più pericolosi latitanti arrestati, per un totale di 500 azioni di polizia giudiziaria ed oltre 5000 fermati perché sospettati di appartenere ad organizzazioni mafiose. Che si tratti di fumo negli occhi o di un lavoro encomiabile, purtroppo, poco importa, di fronte alle scioccanti esternazioni di Berlusconi. “La mafia italiana risulterebbe essere la sesta al mondo – ha detto – ma è quella più conosciuta, anche grazie al contributo di serie come La Piovra” e all’apporto di “letteratura, Gomorra e tutto il resto”. Probabilmente immemore d’aver editato il libro di Saviano, il premier ha lasciato tutti a bocca aperta, pur non essendo nuovo ad attacchi di questo genere (già un’altra volta se l’era presa con La Piovra, anche in questo caso dimentico che, al di là dell’enorme successo ottenuto dalla serie con Placido e Girone oltre vent’anni fa, negli ultimi anni è stato suo figlio Piersilvio a mandare in onda fiction simili, dedicate a Riina e Provenzano). E ritornavano alla mente le parole pronunciate dal boss di Cosa Nostra Michele Greco, che attribuiva la creazione del mito delle organizzazioni mafiose al film di Coppola, Il Padrino. O, come ricorda Saviano, apparivano tremendamente attuali le parole di Nicola Schiavone, padre dei fratelli Schiavone, che sosteneva che la camorra esistesse soltanto nella testa di chi ne scriveva e che collegava fatti tra loro non correlati, stringendoli in un intreccio romanzesco. Insomma, al di là delle opere di lotta concreta, da strada, che le forze di polizia portano avanti ogni giorno contro le organizzazioni criminali, pare assurdo che il presidente del Consiglio di uno dei Paesi maggiormente colpiti da questa piaga liquidi la questione in questi termini. Quella cultura, che deve nascere dal basso, di odio e disprezzo nei confronti delle organizzazioni mafiose, quella cultura di cui si faceva promotore e sostenitore un martire dei nostri tempi come Paolo Borsellino, in questo modo viene combattuta, osteggiata, dequalificata e, in ultima istanza, derisa proprio da coloro che dovrebbero ergersi a simboli di questa lotta. Come dicevamo, le parole del premier a Roma hanno suscitato clamore. Veltroni e Di Pietro si sono subito scagliati contro di lui, in difesa di Saviano, invocandone le scuse. Intellettuali e scrittori del calibro di Salman Rushdie (che con lo scrittore napoletano ha in comune un’esperienza di vita segnata dalla vita sotto minaccia e copertura), che si dichiarato “sconcertato”, e David Grossman, che ha parlato di “tesi irresponsabili”, hanno espresso tutto il loro sbigottimento. “Considero la testimonianza di Roberto una scelta coraggiosa – ha detto lo scrittore indiano – il dramma ch’egli vive ogni giorno è reale, autentico, un peso intollerabile per qualsiasi essere umano. Le dichiarazioni di Berlusconi sono una vera disgrazia per l’Italia”. La più toccante tra le testimonianze e le risposte succedutesi numerose dopo la conferenza stampa di Palazzo Chigi, è quella che viene proprio da Roberto Saviano, in persona. Una lettera diretta al premier, pubblicata da Repubblica e repubblica.it, è stato il modo scelto dal giornalista-scrittore per rispondere all’invettiva. “Presidente Silvio Berlusconi, le scrivo dopo che in una conferenza stampa tenuta da lei a Palazzo Chigi sono stato accusato, anzi il mio libro è stato accusato d’essere responsabile di supporto promozionale alle cosche”. Inizia così la lettera di Saviano. “Il potere mafioso è determinato da chi racconta il crimine o da chi commette il crimine?”, si chiede incredulo lo scrittore. Non è forse grazie a personaggi e circostanze che hanno reso la lotta alle mafie popolare, conosciuta, reale e tangibile, che si è resa possibile un’opera di sensibilizzazione che, pur non avendo ancora portato ai risultati sperati – grazie e a causa delle connivenze ideologiche e pratiche della gente comune e dei poteri decisionali – ha acceso un barlume di speranza? Eppure sembra che ad alcuni, alcuni che si dichiarano impegnati nella lotta in prima linea, il silenzio paia l’arma giusta. “Anche molte personalità del centro-sinistra campano – dice ancora Saviano (foto) – quando uscì il libro dissero che avevo diffamato il rinascimento napoletano, che mi ero fatto pubblicità, che la mia era semplicemente un’insana voglia di apparire. Quando c’è un incendio si lascia fuggire chi ha appiccato le fiamme e si dà la colpa a chi ha dato l’allarme?”. “Eppure – si legge – Presidente, avrebbe potuto dire molte cose per dimostrare l’impegno antimafia degli italiani. Avrebbe potuto raccontare che l’Italia è il Paese con la migliore legislazione antimafia del mondo. Avrebbe potuto raccontare di come noi italiani offriamo il know-how dell’antimafia a mezzo mondo”. E invece l’accento, ancora una volta, è ricaduto sul potere della parola, quel potere troppe volte – non certo soltanto in questa circostanza – messo in dubbio e messo in gioco, bistrattato ed ostacolato pericolosamente, negli ultimi anni. Il potere della parola sulla mafia preoccupa più della mafia stessa? “Lo giuro, Presidente – termina la lettera – anche a nome degli italiani che considerano i propri morti tutti coloro che sono caduti combattendo le organizzazioni criminali, che non ci sarà giorno in cui taceremo. Questo lo prometto. A voce alta”. (G.M. Per NL)