Franco Abruzzo.it
“I dati più recenti dell’Upa, l’associazione che raccoglie i principali investitori in pubblicità, registrano una diminuzione di circa il 7% degli investimenti nella carta stampata. E di circa il 2,5 di quelli sulla tivù: in una situazione come quella italiana, badi bene, dove c’è quel piccolo dettaglio dell’anomalia Berlusconi. Viceversa, sul Web si registra un aumento addirittura a due cifre: siamo al 21,5% (si tratta di proiezioni reali, al netto dell’inflazione, riferite alla fine del 2008, ndr)”.
di EGLE SANTOLINI (La Stampa.it)
“Lei se lo comprerebbe un fax? Immagino di no, visto che esiste la posta elettronica. Ecco, diciamo che la tivù generalista è obsoleta come un fax». Annamaria Testa, papessa del mondo pubblicitario italiano, creatrice di quella famosa campagna con la Gioconda riccioluta che fa subito Ferrarelle, la débâcle catodica a cui stiamo assistendo se l’aspettava da un pezzo. Ma la tivù delle carrambate, sottolinea, non è – come si dice spesso – colpa dei pubblicitari che temerebbero l’innovazione per tenere al sicuro i loro spot. Anzi: «L’isola di arretratezza sono i centri media, che trattano con le aziende l’acquisto di spazi pubblicitari usando criteri quantitativi e propongono “pacchetti” riempiti di tutto un po’. Il risultato è che la pubblicità in tivù risulta indigeribile. Ha presente quando, nello stesso film, passa tre volte il medesimo spot? Alla fine, quel formaggino non lo vuoi vedere neanche dipinto, figurarsi comperarlo».
Dunque, la Carrà è innocente?
«È semplicemente funzionale al pubblico che alla tivù è rimasto attaccato: gli over 60. Coccolati da un sistema che teme di lasciarsi per strada pure quelli. Una spettatrice di una certa età ha tutto il diritto di guardarsela, la Carrà. Il problema è che gli altri, quelli delle fasce più dinamiche, vivaci, la tivù generalista se li è persi da un pezzo. L’età media di chi guarda i tg è abbondantemente superiore alla cinquantina, e peggio ancora va per molti altri programmi».
È da anni che lo si dice. Quanto ci vorrà perché la tivù non sia più un mezzo competitivo dal punto di vista pubblicitario?
«Ci siamo già. Vede, l’avvento della Rete è stato dirompente. Sta scardinando i consumi, il sistema della comunicazione politica, gli stili di vita, i modi di procurarsi informazioni. Ma questa rivoluzione è stata a lungo ampiamente sottovalutata. Dai media tradizionali, e si capisce perché: a nessuno piace autoscavarsi la fossa. Così per molto tempo si è fatto come se niente fosse, come se Internet fosse un fenomeno passeggero. Si è giocato anche sull’equivoco, perché si è creduto, o si è fatto finta di credere, che la pubblicità sul Web significasse semplicemente banner e pop-up. Quando è evidente che il messaggio passa soprattutto per la costruzione dei siti. Se lei produce caffè, libri, magliette, software, ma soprattutto prodotti di nicchia che non possono contare su grandi investimenti, le conviene di più pubblicizzare il suo prodotto con un annuncino oppure aprendo un bel sito divertente, completo e colorato, dove chi è interessato può trovare le informazioni che vuole, e magari giocare, e magari comprare con un semplice clic. Oggi nel sito della Coca Cola trovo musica e giochi, in quello di Fiat posso prenotare una prova su strada, in quello di Illy posso comprarmi una macchina per l’espresso».
E ora, dopo anni di sottovalutazione…
«La crisi dei media classici si sta facendo concreta. I dati più recenti dell’Upa, l’associazione che raccoglie i principali investitori in pubblicità, registrano una diminuzione di circa il 7% degli investimenti nella carta stampata. E di circa il 2,5 di quelli sulla tivù: in una situazione come quella italiana, badi bene, dove c’è quel piccolo dettaglio dell’anomalia Berlusconi. Viceversa, sul Web si registra un aumento addirittura a due cifre: siamo al 21,5% (si tratta di proiezioni reali, al netto dell’inflazione, riferite alla fine del 2008, ndr). Il consumatore è diventato più attento, sa scegliere anche quando diventa difficile: pensi a come si è saputo orientare nel labirinto delle offerte sui telefonini. Non puoi continuare a dargli un’offerta arretrata come quella tivù, che d’altra parte non può permettersi troppa sperimentazione perché altrimenti scoraggia anche quel poco pubblico anziano che le è rimasto attaccato».
Un circolo vizioso?
«Che non si sa bene come e quando sia cominciato. Certo c’è la responsabilità della tivù privata, improntata a un’ottica puramente commerciale, ma anche quella della tivù pubblica, che della privata molto tempo fa decise di andare a ruota. Facendo un grande errore. L’ultimo a sperimentare è stato Angelo Guglielmi con Rai3. Negli Anni Novanta. Veda lei»
Sul satellite, invece?
«Il satellite è per sua natura segmentante. L’offerta è tematizzata e il consumatore-spettatore ci trova esattamente quello di cui ha bisogno. Anche gli investitori pubblicitari, per esempio quelli interessati al pubblico dei ragazzini, lo sanno bene».
Possiamo dire che l’investimento sulla tivù generalista è già marginale?
«No, perché per esempio è di gran lunga maggiore a quello che si registra negli Usa, e fino a poco fa era inferiore solo a quello della Cina: tenga presente che il pubblico italiano legge poco e che c’è una buona dose di analfabetismo di ritorno, come Tullio De Mauro continua a ricordare nell’indifferenza generale. Ma le cose stanno cambiando».
Cioè?
«Vista la crisi che stiamo attraversando, gli investitori potrebbero farsi molto più selettivi. Lo strumento principe per decidere gli investimenti è l’arcaico Grp (Gross Rating Point), che misura la pressione pubblicitaria realizzabile con un investimento dato. È un indice puramente quantitativo che si ottiene moltiplicando la percentuale di target, cioè di potenziali consumatori, raggiunti da uno spot, con la frequenza, cioè la quantità di volte che ciascuno vedrà quello spot. Ed eccolo qui, il motivo della ripetizione ossessiva: aumentare i Grp’s non necessariamente aumenta l’efficacia di una campagna. È probabile che il criterio quantitativo, indifferenziato, bruto, non basti più, e che si cominci a pensare in termini qualitativi».
Ma lei la tv la segue??
«Da spettatrice puramente professionale. Lì succede poco di nuovo e dunque io poco la guardo. Mai durante i pasti per ragioni di igiene mentale. A meno di avvenimenti eccezionali, le news si leggono sui quotidiani o si guardano su Internet. Qualche film, soffrendo per gli spot. History Channel con mio figlio». E le serie? «Come no, Soprano, Desperate Housewives, Heroes, Boston Legal, Dottor House. Però tutte su dvd, così sono in grado di scegliere quando e dove vederle, se in tv o sul computer. E se potessi scaricarmele legalmente su Internet, come si fa con la musica, pagherei volentieri».