Lo scorso martedì (13 novembre, ndr) Altroconsumo, l’associazione indipendente dei consumatori, ha depositato presso il TAR del Lazio il proprio ricorso contro la delibera dell’Autorità Garante per le comunicazioni che ha, di fatto, fissato le regole ed i paletti (pochi) per il bando di gara d’assegnazione delle frequenze WiMax, presentato dal ministero delle Comunicazioni e reso pubblico lo scorso 11 ottobre. Il ricorso va ad aggiungersi a quello già presentato precedentemente da Mgm, società che possiede la licenza in Germania e che, in accordo con l’Associazione italiana Anti digital divide, aveva contestato l’assenza di adeguate condizioni che ostacolino la partecipazione alla gara di operatori già detentori di frequenze Umts.
Telecom Italia, Vodafone, Wind e H3G, quindi, non potrebbero prender parte all’asta, secondo i ricorrenti. Il rischio concreto sarebbe che, per motivi puramente di business, qualora vincesse la gara qualcuno dei sopra citati attori, questi potrebbero anche tenere nel cassetto la propria licenza, preferendo puntare ancora sull’Umts e lasciando, in questo caso, l’Italia in preda alle morse del digital divide. La tecnologia WiMax, difatti, costituirebbe, se usata nella maniera appropriata, un deterrente straordinario per combattere questo fenomeno. Nella sostanza, invece, le condizioni del bando (come, ad esempio, la decisione di far partire il prezzo d’asta da 45 milioni di euro come in Francia, con la differenza che lì questa mossa è stata studiata per favorire l’ingresso di nuovi operatori, in Italia invece…) sembrano servire su un piatto d’argento la possibilità ai colossi della telefonia di utilizzare a proprio piacimento la tecnologia, con buona pace delle associazioni che combattono il digital divide (nella speciale classifica dei Paesi dell’Europa allargata a 27 – quindi, Romania e Bulgaria incluse – l’Italia risulta ampiamente sotto la media generale). “Il Governo conferma gli impegni a ridurre il divario digitale ancora presente in molte Regioni italiane”, aveva detto Gentiloni l’11 ottobre. Se per farlo, però, si affida anima e corpo a quelle aziende che, probabilmente, hanno contribuito all’attuale, situazione, pare esserci qualcosa che andrebbe valutato. Il bando del ministero, oltretutto, impone limitazioni anacronistiche all’utilizzo della nuova tecnologia, come l’impossibilità per le antenne WiMax di collegarsi tra loro come ponti radio, o altri elementi che le associazioni ricorrenti hanno criticato aspramente: il limitato numero di concessioni previste e la mancata adozione di licenze libere “open spectrum”, sistema che avrebbe consentito la destinazione di una porzione di banda larga liberamente utilizzabile a determinati servizi al cittadino, come quelli erogati on line dalle Pubbliche Amministrazioni, da fruire per via telematica, senza essere gravati da costi di connessione. Insomma, l’ennesima “italianata”. E poi ci si stupisce se il nostro digital divide è pari a quello dei Paesi dell’est europeo, usciti solo da poco più di quindici anni dal dominio sovietico.
Per finire, poi, il bando in questione, su precisa scelta del ministero, adotta come sistema di scelta la migliore offerta economica, al contrario di altri Paesi che (come molti operatori avevano richiesto fosse stabilito anche in Italia), invece, utilizzano una valutazione dei migliori piani di investimento e di sviluppo. E’ ovvio, a questo punto, che le “majors” (Telecom Italia su tutti, poi Vodafone, Wind e H3G), favorite dalle proprie possibilità di spesa, possano decidere in totale autonomia, svincolate da qualsiasi paletto, la gestione di queste frequenze: cosa, questa, del tutto legittima dal punto di vista del business, ma ovviamente deleteria per le sorti tecnologiche del nostro povero Paese. (Giuseppe Colucci per NL)