Dalla newsletter del sito www.francoabruzzo.it
Solo il terzo potere garantisce l’autonomia e la libertà della professione giornalistica
Il disegno di legge affida al Governo (con l’articolo 29) una delega infinita e preoccupante che spazia “dall’attuazione delle norme costituzionali in tema di libertà di manifestazione del pensiero al coordinamento e adeguamento della disciplina in tema di responsabilità degli operatori dell’informazione”. Quali sono gli obiettivi del potere esecutivo e del potere legislativo?
Il disegno di legge affida al Governo (con l’articolo 29) una delega infinita e preoccupante che spazia “dall’attuazione delle norme costituzionali in tema di libertà di manifestazione del pensiero al coordinamento e adeguamento della disciplina in tema di responsabilità degli operatori dell’informazione”. Quali sono gli obiettivi del potere esecutivo e del potere legislativo?
Nota di Franco Abruzzo
consigliere dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia
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INDICE
1. Premessa. E’ costituzionalmente corretto affidare giornali e direttori alla vigilanza di una Autorità (l’Agcom), che è espressione, comunque, del potere legislativo e del potere esecutivo?
2. Prima mossa: 27 dicembre 2006. La “Commissione Cheli” al lavoro per attribuire la deontologia dei giornalisti e il potere disciplinare sui giornalisti all’Agcom.
3. Conclusioni. Il “ddl Levi” affida al Governo (con l’articolo 29) una delega infinita e preoccupante che spazia dall’attuazione delle norme costituzionali in tema di libertà di manifestazione del pensiero al coordinamento e adeguamento della disciplina in tema di responsabilità degli operatori dell’informazione. L’Agcom continui ad occuparsi soltanto degli editori delle testate. I giornali siano registrati ancora presso le cancellerie dei Tribunali così come hanno voluto i padri costituenti..
4.ALLEGATI – Gli articoli 6, 7 e 29 del “ddl Levi
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1. Premessa. E’ costituzionalmente corretto affidare giornali e direttori alla vigilanza di una Autorità (l’Agcom), che è espressione, comunque, del potere legislativo e del potere esecutivo?
In un lancio del 3 agosto di un agenzia di stampa si poteva leggere: “Con il ddl (disegno di legge, ndr) approvato oggi in via preliminare dal Consiglio dei ministri sull’editoria, non sarà più necessaria l’iscrizione al Tribunale, ma occorrerà iscriversi al Registro degli operatori della comunicazione (Roc), da parte dei ‘soggetti che svolgono attività editoriale, per la diretta realizzazione e distribuzione di prodotti editoriali, nonché la relativa raccolta pubblicitaria. L’esercizio dell’attività editoriale può essere svolto anche in forma non imprenditoriale per finalità non lucrative.. Lo ha riferito il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’Editoria, Ricki Levi. Sull’attività editoriale vigilerà, quindi, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, mentre gli aspetti concorrenziali saranno di competenza dell’Autorità antitrust. La responsabilità dei siti internet che fanno informazione sarà infine comparata a quella delle altre testate giornalistiche e si considera responsabile colui che ha il compito di autorizzare la pubblicazione di informazioni”. Nessuno si è reso conto che, se questo ddl dovesse diventare legge, l’Italia tornerebbe sostanzialmente all’Editto albertino sulla stampa (legge 695 del 26 marzo 1848) e verrebbe cancellata una norma votata dall’Assemblea nazionale costituente l’8 febbraio 1948. L’articolo 36 dell’Editto albertino stabiliva che “chi intende va pubblicare un giornale od altro scritto periodico dovrà presentare alla Segreteria di Stato per gli affari interni una dichiarazione in iscritto corredata degli opportuni documenti”. Lo Statuto proclamava la libertà di stampa, ma ogni pubblicazione era “permessa” a patto che si rispettassero alcune regole tra le quali quella di procurarsi l’ok dal Ministero degli Interni.(simbolo del potere esecutivo). L’articolo 5 della legge n. 47 sulla stampa dell’8 febbraio 1948, afferma, invece, che “nessun giornale o periodico può essere pubblicato se non sia stato registrato presso la cancelleria del tribunale, nella cui circoscrizione la pubblicazione deve effettuarsi”. Nel passaggio della registrazione dei giornali dal Ministero degli Interni ai Tribunali è riassunta un secolo di storia italiana, una storia resa ancora più drammatica dalla dittatura fascista che sottopose la stampa al controllo dei prefetti prima e poi dei procuratori generali del re.
Bisogna aggiungere che il “ddl Levi” innova pochissimo per quanto riguarda i giornali telemtici. In sintesi le testate giornalistiche on-line – definite “prodotto editoriale” – devono obbligatoriamente essere registrate nei tribunali e avere un direttore responsabile, un editore e uno stampatore-provider, quando hanno una regolare periodicità (quotidiana, settimanale, bisettimanale, trisettimanale, mensile, bimestrale, etc), quando puntano a ottenere dallo Stato “benefici, agevolazioni e provvidenze”, quando prevedono di conseguire ricavi e anche quando utilizzano giornalisti professionisti, pubblicisti e praticanti. L’articolo 1 (terzo comma) della legge 62/2001 va letto in sintonia con l’articolo 16 (semplificazioni) della stessa legge 62; con gli articoli 2, 3 e 5 della legge n. 47/1948 sulla stampa; con gli articoli 1, 2 e 27 della delibera n. 236/2001 dell’Agcom; con l’articolo 31 (punto a) della legge n. 39/2002; con l’articolo 7 (comma 3) del Dlgs n. 70/2003; con l’allegato N (“lavoro nei giornali elettronici”) del Cnlg (Contratto nazionale di lavoro giornalistico) 2001-2005 che ha forza di legge (dopo l’emanazione del Dpr n. 153/1961); con l’articolo 34 della legge professionale n. 69/1963 che regola la “pratica giornalistica” nelle testate regolarmente registrate e con l’articolo 35 della stessa legge, che fissa le “modalità d’iscrizione nell’elenco dei pubblicisti”. In entrambi gli scenari, il direttore responsabile indossa i panni del “certificatore”. Una sentenza milanese va in questa direzione:“Alla luce della complessiva normativa in tema di pubblicazioni diffuse sulla rete Internet, risulta ormai acquisito all’ordinamento giuridico il principio della totale assimilazione della pubblicazione cartacea a quella diffusa in via elettronica, secondo quanto stabilito esplicitamente dall’articolo 1 della legge 62/2001. Tale definizione incide e amplia quella contenuta nel Rdlg 561/1946 secondo cui non si può procedere al sequestro delle edizioni dei giornali, di pubblicazioni o stampati – contemplati nell’Editto della stampa 26 marzo 1848 n. 695 – se non in virtù di una sentenza irrevocabile” (Tribunale di Milano, II sezione civile, sentenza 10-16 maggio 2002 n. 6127 in Guida al Diritto n. 47 del 7 dicembre 2002).
Nel Roc vengono annotati oggi i nomi degli editori (Rai, Rcs, Il Sole 24 Ore SpA, Class, Mondadori, Rusconi, Poligrafici, etc), ma non quelli delle testate giornalistiche, che fanno capo ai singoli editori. Nel Registro dell’Agcom non figurano inoltre i dati anagrafici del direttore responsabile delle singole testate. In conclusione vale oggi la doppia iscrizione differenziata: gli editori nel Roc e le testate presso i tribunali. Si devono iscrivere nel Roc non solo gli editori già iscritti nel Registro nazionale della stampa (Rns), ma anche “gli altri soggetti editori che comunque pubblicano una o più testate giornalistiche diffuse al pubblico con regolare periodicità per cui è previsto il conseguimento di ricavi da attività editoriale” (articolo 2, punto d, della delibera dell’Agcom) e che “intendano avvalersi delle provvidenze previste dalla legge 7 marzo 2001, n. 62, o che comunque ne facciano specifica richiesta” (articolo 31, punto a, della legge n. 39/2002 e articolo 7, comma 3, del Dlgs n. 70/2003). E’ evidente che la legge 39/2002 e il Dlgs n. 70/2003 prevalgano sulla delibera dell’Agcom. Le indicazioni (periodicità e ricavi) di quella delibera verranno utilizzati ora come elementi caratterizzanti della pubblicazione web per la quale l’editore chiederà il contributo finanziario pubblico.
Il Registro degli operatori della comunicazione (Roc) è gestito dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (il vecchio “Garante dell’editoria” del 1981 diventato nel 1990 Garante dell’editoria e delle radiodiffusioni). L’Autorità è governata da 9 membri, che sono nominati secondo questo schema: 4 dal Senato, 4 dalla Camera, mentre il presidente “è nominato con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri d’intesa con il Ministro delle comunicazioni”. In nessun caso la nomina può “essere effettuate in mancanza del parere favorevole espresso dalle Commissioni parlamentari a maggioranza dei due terzi dei componenti”. Il presidente, quindi, deve essere una personalità di altissimo profilo, capace di calamitare il consenso della maggioranza e dell’opposizione. L’Agcom, organismo di estrazione politica, è un’autorità indipendente, che è l’occhio del Parlamento sul mondo dei media. E al Parlamento consegna ogni anno una corposa relazione. E’ costituzionalmente corretto affidare giornali e direttori alla vigilanza di una Autorità, che è espressione, comunque, del potere legislativo e del potere esecutivo?
2. Prima mossa: 27 dicembre 2006. La “Commissione Cheli” al lavoro per attribuire la deontologia dei giornalisti e il potere disciplinare sui giornalisti all’Agcom.
“Il Governo, ha deciso di promuovere una riforma organica del settore dell’editoria e, con la Legge Finanziaria, ha formalmente assunto l’impegno di presentare entro i prossimi sei mesi un apposito disegno di legge. Con l’aiuto di un gruppo di esperti presieduto dal primo presidente dell’Autorità garante delle comunicazioni, Enzo Cheli, è stato elaborato un indice ed un questionario riguardanti tutti i temi sui quali dovrà intervenire la riforma che viene ora sottoposto all’attenzione delle associazioni rappresentative del mondo dell’editoria e dei soggetti interessati e pubblicato sul sito internet del Governo (www.governo.it). Vogliamo che gli operatori del settore, associazioni ma anche singoli cittadini siano attivamente coinvolti nella partecipazione a tale progetto, rispondendo al nostro questionario ed eventualmente arricchendolo con le loro indicazioni”. Fin qui il comunicato diramato il 27 dicembre 2007 da Palazzo Chigi. Questo comunicato – abbiamo osservato (vedi http://www.francoabruzzo.it/document.asp?DID=503) – nasconde una polpetta avvelenata nella parte apparentemente innocua del documento (il “questionario della riforma dell’editoria”). Il punto 6, dedicato ai Codici deontologici, recita così: “Quali sono i vantaggi, ovvero, svantaggi che potrebbero prevedersi adottando un Codice deontologico generale, applicabile anche all’editoria on-line e fatto proprio dall’Autorità garante per le comunicazioni, che in mancanza di proposta dell’Ordine lo adotterebbe motu proprio, e che sarebbe competente a sanzionarne le violazioni, secondo la disciplina già prevista per il trattamento dei dati personali? “.
Enzo Cheli è un eminente giurista, già giudice costituzionale e presidente dell’Agcom, autore di svariati trattati di diritto costituzionale. Cheli appartiene a quella scuola fiorentina, che, fondata da Piero Calamandrei e Paolo Barile, studia da oltre 50 anni il mondo della televisione e del giornalismo, e che è nota per le sue critiche (legittime) all’esistenza dell’Ordine dei Giornalisti. Di questa scuola prestigiosa fanno parte a buon titolo lo stesso Cheli, Ugo De Siervo (giudice costituzionale) e Roberto Zaccaria (oggi parlamentare dell’Ulivo, docente universitario e già presidente della Rai).
Non sorprende, quindi, il quesito appena citato. E’ figlio di una visione “fiorentina” e che incautamente vuole mettere sotto schiaffo i giornalisti, affidando deontologia e sanzioni disciplinari all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom).
E’ corretto chiedere “quali sono i vantaggi, ovvero, svantaggi che potrebbero prevedersi adottando un Codice deontologico generale, applicabile anche all’editoria on-line e fatto proprio dall’Autorità garante per le comunicazioni, che in mancanza di proposta dell’Ordine lo adotterebbe motu proprio, e che sarebbe competente a sanzionarne le violazioni, secondo la disciplina già prevista per il trattamento dei dati personali?”. Con questa domanda viene sconvolto l’ordinamento attuale, che affida ai Consigli dell’Ordine dei giornalisti la missione di “contribuire a garantire il rispetto della personalità dei giornalisti e, quindi, della loro libertà: compito, questo, che supera di gran lunga la tutela sindacale del diritti della categoria e che perciò può essere assolto solo da un Ordine a struttura democratica che con i suoi poteri di ente pubblico vigili, nei confronti di tutti e nell’interesse della collettività, sulla rigorosa osservanza di quella dignità professionale che si traduce, anzitutto e soprattutto, nel non abdicare mai alla libertà di informazione e di critica e nel non cedere a sollecitazioni che possano comprometterla” (sentenza 11/1968 della Corte costituzionale firmata da Aldo Sandulli). Nel caso specifico le “regole” fissate dal legislatore (artt. 2 e 48 l. 69/1963) sono il perno, come afferma il contratto di lavoro, dell’autonomia dei giornalisti: l’editore non può impartire al direttore disposizioni in contrasto con la deontologia professionale, mentre il direttore deve garantire l’autonomia del suo collettivo redazionale.
La risposta, quindi, è ovviamente positiva: sono evidenti i vantaggi collegati alla stesura di un “Codice deontologico generale”. La deontologia è il cuore di ogni professione. Quel “Codice generale”, però, è già scritto nella legge professionale citata; nella legge sulla stampa (che, con l’articolo 15, proibisce la pubblicazione di foto raccapriccianti o impressionanti); nelle leggi sulla privacy (675/1996 e 196/2003) che hanno partorito “Il Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica”; nell’articolo 114 (comma 6) del Cpp e nell’articolo 13 del Dpr 448/1988 sul processo penale minorile (assorbito nell’articolo 50 del dlgs 196/2003), che bloccano anche le notizie indirette tali da determinare l’identificazione del minore: un reticolo di norme arricchito dalla legge 27 maggio 1991 n. 176 (Convenzione Onu 1989 sui diritti del bambino); nella nuova “Carta di Treviso” scritta di comune accordo tra Ordine nazionale e Garante della Privacy (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 13 novembre 2006); nella “Carta dei doveri del giornalista” (firmata dall’Ordine e dalla Fnsi l’8 luglio 1993); nella Carta dei Doveri dell’Informazione economica.
Eppure quel punto 6 del questionario è figlio di una cultura del sospetto, quando afferma grosso modo “che in mancanza di proposta dell’Ordine l’Autorità garante per le comunicazioni adotterebbe motu proprio il Codice deontologico generale, applicabile anche all’editoria on-line. L’Autorità garante per le comunicazioni sarebbe competente a sanzionarne le violazioni, secondo la disciplina già prevista per il trattamento dei dati personali”. Perché l’Ordine nazionale non dovrebbe proporre un testo di “Codice generale”, avendo già scritto egregiamente il Codice della privacy, la nuova Carta di Treviso, la Carta dei doveri del giornalista, la Carta Informazione e Pubblicità, la Carta Informazione e Sondaggi? Il giudice delle regole è soltanto l’Ordine professionale anche rispetto al Codice della privacy. Cheli è incorso in uno svarione, quando attribuisce al Garante della privacy funzioni di giudice dei giornalisti. Il giudice della privacy, invece, per i giornalisti, è soltanto l’Ordine professionale (art. 13, punto 2, del Codice di deontologia relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica).
Non ci siamo. Il potere politico, tramite la Commissione Cheli, cerca di mettere sotto schiaffo i giornalisti, mentre gli editori completano il lavoro, negando il contratto. Cheli e anche il giornalista Ricky Levi farebbero bene a prendere atto che il Parlamento, con le leggi sulla privacy e sulla comunicazione pubblica (150/2000), ha rafforzato notevolmente l’Ordine dei giornalisti, mentre l’articolo 2 del dlgs 70/2003 definisce «professione regolamentata» quella professione riconosciuta ai sensi dell’articolo 2 del decreto legislativo 27 gennaio 1992 n. 115 (Attuazione della direttiva 89/48/CEE) ovvero ai sensi dell’articolo 2 del decreto legislativo 2 maggio 1994 n. 319 (Attuazione della direttiva 92/51/CEE relativa ad un secondo sistema generale di riconoscimento della formazione professionale che integra la direttiva 89/48/CEE). Il dlgs 70/2003, il dlgs 319/1994 e il dlgs 277/2003 “europeizzano” la professione italiana di giornalista.
Soltanto nel 2003, con il dlgs 277 citato, la Repubblica italiana ha compiuto un atto di riparazione parziale, modificando la tabella delle professioni (allegato C) inclusa nel dlgs 319/1994 (che ingloba la direttiva 92/51/CEE). Oggi, infatti, la professione di giornalista rientra tra quelle caratterizzate dal possesso del diploma (e non dalla laurea) riconosciute come tali dal dlgs 2 maggio 1994 n. 319, che ha dato “attuazione alla direttiva 92/51/CEE relativa ad un secondo sistema generale di riconoscimento della formazione professionale che integra la direttiva 89/48/CEE”. Il dlgs 8 luglio 2003 n. 277 ha dato, invece, attuazione della direttiva 2001/19/CE, che modifica le direttive del Consiglio relative al sistema generale di riconoscimento delle qualifiche professionali. L’allegato II (di cui all’art. 2, comma 1, lettera l) del dlgs 277/2003 cita espressamente la professione di giornalista come vigilata dal Ministero della Giustizia. L’allegato II del dlgs 277/2003 ha anche sostituito, come riferito, l’allegato C del dlgs 319/1994. I dlgs 277/2003 e 319/1994 in sostanza dicono, con l’allegato II (ex allegato C), che la professione giornalistica (italiana), organizzata (ex legge 69/1963) con l’Ordine e l’Albo (in base all’art. 2229 Cc) e costituzionalmente legittima (sentenze 11 e 98/1968, 2/1971, 71/1991, 505/1995 e 38/1997 della Consulta), ha oggi sì il riconoscimento dell’Unione europea, ma a un livello inferiore rispetto a quelle comprese nell’allegato A del Dlgs 115/1992 caratterizzate dalla laurea. Con la “riforma Mastella”, questo gap dovrebbe essere superato, prevedendo la laurea come titolo obbligatorio per l’accesso al praticantato giornalistico (nel rispetto del comma 18 dell’articolo 1 della legge 4/1999).
3. Conclusioni. Il “ddl Levi” affida al Governo (con l’articolo 29) una delega infinita e preoccupante che spazia dall’attuazione delle norme costituzionali in tema di libertà di manifestazione del pensiero al coordinamento e adeguamento della disciplina in tema di responsabilità degli operatori dell’informazione. L’Agcom continui ad occuparsi soltanto degli editori delle testate. I giornali siano registrati ancora presso le cancellerie dei Tribunali così come hanno voluto i padri costituenti..
L’iscrizione al Registro degli operatori di comunicazione – afferma l’articolo 6 del “ddl Levi” – “è condizione per l’inizio delle pubblicazioni dei quotidiani e dei periodici, e sostituisce a tutti gli effetti la registrazione presso il Tribunale, di cui all’articolo 5 della legge 8 febbraio 1948, n. 47”. Palazzo Chidi evidentemente intende procedere per tappe: il primo passaggio è l’attribuzione all’Agcom della registrazione delle testate. Testate e direttori responsabili, quindi, finirebbero sotto il cappello dell’Autorità. Poi con i decreti delegati (articolo 29 del “ddl Levi”) si completerebbe la manovra. La delega, pretesa dal Governo, è infinita e preoccupante: spazia dall’attuazione delle norme costituzionali in tema di libertà di manifestazione del pensiero al coordinamento e adeguamento della disciplina in tema di responsabilità degli operatori dell’informazione. Che significa attuazione delle norme costituzionali in tema di libertà di manifestazione del pensiero? Secondo il pensiero (noto) del prof. Cheli, l’attuazione delle norme costituzionali in tema di libertà di manifestazione del pensiero significa lo smantellamento dell’Ordine dei Giornalisti. Il pensiero di Chedi (e del Governo?) è quello espresso dalla Corte costituzionale, con la sentenza 38/1997, quando la Corte ha dichiarato legittimo il quesito referendario pannelliano. La Consulta in quella occasione ha scritto: “Né può sorgere il dubbio che, con l’eventuale esito abrogativo del referendum, possano venir meno l’attività giornalistica professionale, la disciplina contrattuale del rapporto di lavoro, o i canoni deontologici inerenti a tale attività. Questi ultimi derivano, oltre che dal costume, da altre leggi (cui del resto fa rinvio lo stesso art. 2 l. 69/1963), dalle funzioni del Garante, dalla giurisprudenza in materia e da forme di autoregolamentazione”. I giornalisti, secondo Cheli, possono vivere anche senza l’Ordine.
Oggi l’abrogazione della legge sull’Ordine non è chiesta soltanto da Massimo D’Alema ma anche da Gianfranco Fini. Il cerchio si chiude. Peraltro l’esistenza dell’Ordine è debole anche agli occhi degli iscritti, che partecipano in maniera minima alla vita dell’ente (votano grosso modo il 12% dei giornalisti professionisti e il 7 per cento dei pubblicisti).
Eppure appaiono chiare le ragioni che hanno spinto il Parlamento nel 1963 a tutelare la professione giornalistica. Senza legge professionale, direttori e redattori sarebbero degli impiegati di redazione vincolati soltanto da un articolo (2105) del Codice civile, che riguarda gli obblighi di fedeltà verso l’azienda. La fedeltà prevarrebbe sulla deontologia non più scritta in una legge. Il direttore non sarebbe giuridicamente nelle condizioni di garantire l’autonomia della sua redazione. Il segreto professionale non esisterebbe non… esistendo la veste giuridica della professione di giornalista. E’ quello che vogliono gli editori, impegnati da due anni nell’impresa di smontare un contratto di lavoro fortemente deontologico sin dalla prima stesura risalente al 1911/1913.
L’articolo 21 della Costituzione repubblicana proclama che “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”. Gli articoli 3 e 5 della legge n. 47/1948 sulla stampa affermano: 1. che ogni giornale o altro periodico deve avere un direttore responsabile; 2. che nessun giornale o periodico può essere pubblicato se non sia stato registrato presso la cancelleria del tribunale, nella cui circoscrizione la pubblicazione deve effettuarsi. Nell’Italia monarchica la pubblicazione di giornali era “permessa”, mentre oggi “non è soggetta ad autorizzazioni o censure”. In questi due passaggi è riassumibile la differenze tra le due Italie, quella monarchica e quella repubblicana. La novità sta nella registrazione delle testate presso i tribunali. La magistratura, soggetta soltanto alla legge, garantisce quel diritto dei cittadini e anche il diritto-dovere di libertà e di autonomia dei giornalisti. Non si può e non si deve tornare larvatamente allo Statuto albertino. L’autogoverno dei giornalisti, attraverso l’Ordine, è una conquista repubblicana da difendere e da potenziare con l’aggancio all’Università luogo della formazione di tutti i professionisti italiani. L’Agcom continui ad occuparsi soltanto degli editori delle testate. I giornali siano registrati ancora presso le cancellerie dei Tribunali così come hanno voluto i padri costituenti. Il potenziamento del ruolo dell’Agcom – come “registratore” dei giornali e giudice dei giornalisti – è contro la Costituzione.
4. ALLEGATI – Gli articoli 6, 7 e 29 del “ddl Levi
Art. 6 (Registro degli operatori di comunicazione)
1. Ai fini della tutela della trasparenza, della concorrenza e del pluralismo nel settore editoriale, tutti i soggetti che esercitano l’attività editoriale sono tenuti all’iscrizione nel Registro degli operatori di comunicazione, di cui all’articolo 1, comma 6, lettera a), numero 5, della legge 31 luglio 1997 n. 249. Sono esclusi dall’obbligo della registrazione i soggetti che operano come punti finali di vendita dei prodotti editoriali.
2. L’iscrizione al Registro degli operatori di comunicazione è condizione per l’inizio delle pubblicazioni dei quotidiani e dei periodici, e sostituisce a tutti gli effetti la registrazione presso il Tribunale, di cui all’articolo 5 della legge 8 febbraio 1948, n. 47. Sono fatti salvi i diritti già acquisiti da parte dei soggetti tenuti a tale registrazione in base alla predetta normativa.
3. La tenuta del Registro degli operatori di comunicazione è curata dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, ai sensi dell’articolo 1, comma 6, lettera a), numero 5, della legge 31 luglio 1997 n. 249.
4. L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni adotta un regolamento per l’organizzazione e la tenuta del Registro degli operatori di comunicazione e per la definizione dei criteri di individuazione dei soggetti e delle imprese tenuti all’iscrizione, ai sensi della presente legge, mediante modalità analoghe a quelle già adottate in attuazione del predetto articolo 1, comma 6 della legge 31 luglio 1997 n. 249 e nel rispetto delle disposizioni già contenute nell’articolo 5 della legge 8 febbraio 1948, n. 47.
Art. 7 (Attività editoriale su internet)
1. L’iscrizione al Registro degli operatori di comunicazione dei soggetti che svolgono attività editoriale su internet rileva anche ai fini dell’applicazione delle norme sulla responsabilità connessa ai reati a mezzo stampa.
2. Per le attività editoriali svolte su internet dai soggetti pubblici si considera responsabile colui che ha il compito di autorizzare la pubblicazione delle informazioni.
Art. 29 (Delega al Governo)
1. Il Governo è delegato ad emanare, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con i Ministri interessati, un decreto legislativo avente ad oggetto la raccolta in un testo unico delle norme primarie in materia di editoria, con riferimento particolare alla disciplina del prodotto e dell’impresa editoriale, del mercato editoriale, delle provvidenze dirette e indirette all’editoria, anche modificando e integrando le norme vigenti ai fini del loro coordinamento formale e sostanziale, nonché del loro adeguamento ai principi ed alle norme del diritto comunitario e costituzionale. Ai fini dell’adozione del predetto decreto legislativo il Governo è tenuto al rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi:
a) attuazione delle norme costituzionali in tema di libertà di manifestazione del pensiero, anche attraverso il rafforzamento della trasparenza e della tutela della concorrenza del mercato;
b) coordinamento e adeguamento della disciplina del diritto d’autore in relazione all’evoluzione del prodotto editoriale, anche con riferimento alle possibilità di uso differenziato dello stesso prodotto e alle rassegne stampa;
c) coordinamento e adeguamento della disciplina in tema di responsabilità degli operatori dell’informazione;
d) ampia delegificazione delle materie non coperte da riserva di legge;
e) indicazione esplicita delle norme abrogate.
2. Il decreto legislativo di cui al comma 1 è emanato previo parere della Conferenza Unificata e delle competenti Commissioni parlamentari, le quali si esprimono entro trenta giorni dall’assegnazione. Decorso tale termine senza che la Conferenza e le Commissioni abbiano espresso il parere di rispettiva competenza, il decreto legislativo può essere comunque emanato.
3. Il Governo è delegato ad emanare uno o più decreti legislativi recanti disposizioni correttive e integrative del decreto legislativo di cui al comma 1, nel rispetto dei principi e criteri direttivi determinati dal presente articolo, entro dodici mesi decorrenti dalla data di scadenza del termine di cui al medesimo comma 1.
4. Il Governo completa il processo di riordino della materia dell’editoria emanando una raccolta organica delle norme regolamentari relative alla medesima materia, anche sulla base degli obiettivi indicati nel comma 117 dell’articolo 2 del decreto legge 3 ottobre 2006, n. 262, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2006, n. 286, e tenendo conto, in particolare, di quanto previsto dal comma 1, lettera d), del presente articolo.