Come si racconta una guerra? E’ domanda, certamente, di non facile risposta. Chi abbia o meno il diritto o il dovere di raccontare una guerra, poi, è domanda non meno scabrosa. Si è tenuto nei giorni scorsi, a Doha, in Qatar, un meeting, un dibattito, organizzato dalla rete satellitare Al-Jazeera, dal nome “I media e il Medio Oriente”. L’incontro, cui erano presenti rappresentanti di numerosi network e giornali di tutto il mondo, verteva sul discorso dell’opportunità di avere più voci che parlino e diffondano notizie riguardanti i conflitti mediorientali (e, in particolare, quello iracheno), sottraendo il monopolio ad Al-Jazeera, opportunità ventilata con maggior enfasi proprio dai vertici della tv panaraba. “Al momento, dove la necessità di un dialogo fra le parti è divenuta sempre più urgente” – ha spiegato Wadah Khanfar, direttore generale dell’emittente – “il ruolo del giornalista come catalizzatore di questo dialogo si è reso indispensabile”, sottolineando, poi, l’intenzione del suo network di “non detenere più il monopolio della verità”. Il ruolo di voce del Medio Oriente inizia a diventare un fardello troppo pesante (dato il continuo aggravarsi della situazione) per essere detenuto da un solo network, con la progressiva rarefazione, poi, delle fonti ufficiali, la proliferazione dei giornalisti embedded, la propaganda dei governi coinvolti nei conflitti e l’informazione non controllata e non controllabile, riversata ogni giorno nella rete. C’è bisogno di voci alternative, quindi, voci dal campo. E, possibilmente, non filo-governative. (Giusepep Colucci per NL)