La politica dell’innovazione digitale in Italia si è sempre nutrita di annunci, tavoli e commissioni; pochissimo di fatti concreti.
Il governo Monti per il momento sembra andare nella stessa direzione, con la costituzione di una sorta di comitato interministeriale (ovviamente chiamato “cabina di regia”, in ossequio alla moda terminologica) che riunisce rappresentati dei dicasteri dell’Istruzione, Sviluppo economico, Funzione pubblica, Economia e Coesione territoriale. La prima mossa è già stata fatta: la costituzione di sei gruppi di lavoro che si occuperanno degli assi considerati strategici: e-government, e-commerce, smart communities, alfabetizzazione informatica, ricerca e investimenti, infrastrutture e sicurezza. A parte la pletora di inglesismi à la page, la differenza la faranno ovviamente le persone, si spera competenti e libere da conflitti di interesse, che saranno chiamate a far parte di questi organismi. Le aspettative, dopo anni di delusioni, sono molto elevate, così come le pressioni da parte di tutti i soggetti che operano nello scenario dell’ICT. Al coro si unisce anche Confindustria digitale, il cui presidente Stefano Parisi (in una recente intervista al Corriere della sera) giudica per ora insufficiente lo sforzo del governo e indica alcuni punti qualificanti che ne dovrebbero informare l’azione nel prossimo futuro: switch-off dal cartaceo al digitale per la pubblica amministrazione, interoperabilità delle banche dati pubbliche, infrastrutture wireless per ridurre il digital divide. Di una data certa per il passaggio definitivo dalla carta ai bit si parla da anni: le problematiche legate al valore legale, alla smaterializzazione e alla conservazione dei documenti della P.A., nonostante infinite discussioni e complici interventi normativi non sempre coerenti fra loro, hanno finora di fatto impedito di avviare un processo serio di digitalizzazione e innescare così gli effetti di riduzione della spesa e aumento dell’efficienza che ci si potevano aspettare. L’idea di stabilire un termine perentorio nasce dalla scarsa fiducia nelle capacità dell’amministrazione di procedere in termini ragionevoli all’abbandono della carta in mancanza di un’imposizione dall’alto. La soluzione però appare poco realistica, soprattutto visti i volumi di carta da convertire e l’infinita varietà di procedimenti e amministrazioni coinvolte. Fattori che probabilmente anche Confindustria sottovaluta ampiamente. Più cogente e anche più realistico l’obiettivo di rendere interoperabili i database pubblici. In funzione della lotta all’evasione fiscale, certo, ma anche per rendere possibili operazioni di programmazione, previsione e controllo finora rese inattuabili dall’assenza di dati coerenti. La proliferazione dei CED e delle banche dati pubbliche è avvenuta negli anni anche grazie alla sostanziale assenza di linee guida a livello nazionale (nonostante i vari CNIPA o DigitPA creati per l’occasione) e al conseguente carosello degli appalti ICT in cui ogni soggetto, dalle amministrazioni centrali agli enti locali, si è costruito il proprio sistema senza tenere in minimo conto la possibilità di rendere disponibili ed elaborabili i dati in rete. I tentativi di seguire anche in Italia la recente tendenza a livello europeo e statunitense di aprire l’accesso agli archivi digitali pubblici (open data) ha reso particolarmente evidente l’inadeguatezza alla condivisione di gran parte dei database nostrani. Giustamente Parisi individua nelle resistenze dell’alta burocrazia uno degli ostacoli maggiori al processo: negli ambienti della P.A. è ben nota e diffusa la convinzione che il tenersi strette le informazioni generi potere e capacità di controllo, e la condivisione è vista come il fumo negli occhi. Ovvio che qui sarebbe necessaria una mutazione culturale che, purtroppo, non si può generare con l’ICT. Passando al capitolo infrastrutture, Parisi si smarca dalle solite litanie sulle NGN sostenendo che il digital divide si può coprire con le reti wireless di nuova generazione. La dura realtà rimane peraltro quella dello spettro radio limitato (anche con l’aggiunta di qualche ex canale TV) e della inevitabile esigenza, peraltro evidenziata anche dal presidente di Agcom in una recente audizione parlamentare, di cablare le super-stazioni radio LTE con la fibra, unica in grado di raccogliere e instradare le connessioni mobili a banda larghissima verso internet. Difficile quindi non evocare la parolina magica: investimenti; in mancanza dei quali lodevoli intenti, gruppi di lavoro e cabine di regia sono destinati al consueto fallimento. (E.D. per NL)