Clemente J. Mimun (foto) è certamente uno dei giornalisti più titolati dell’intero panorama italiano. Titolato nel senso che, nell’arco di quasi trent’anni di carriera giornalistica, ha avuto la fortuna di sedere su poltrone molto importanti, specie per quanto riguarda redazioni dell’informazione televisiva: fu tra i “padri fondatori” del Tg5 dei tanti direttori, con Mentana “primus inter pares”; fu, poi, il turno del Tg2, diretto per otto anni, dal 1994 al 2002; arrivò, allora, la prestigiosa direzione del Tg1 dove, per quasi un lustro, rappresentò la quota governativa della “lottizzazione” del servizio pubblico. Fino alla nomina, con l’insediamento del nuovo Governo, di Gianni Riotta ed il suo ritorno all’ovile (leggasi Tg5), con la carica, ancora una volta, di direttore. Nel dicembre del 2000, tra l’altro, fu insignito anche dell’autorevole onorificenza di Commendatore Ordine al Merito della Repubblica Italiana, per volontà dell’allora Primo Ministro, Massimo D’Alema.
Nelle ultime settimane, Mimun si è trovato coinvolto, assieme ad altri rappresentanti d’entrambe le aziende, nel caso delle intercettazioni riguardo i presunti rapporti collaborativi tra Rai e Mediaset. L’Internal Audit ed il Comitato etico hanno preso, negli ultimi giorni, ad ascoltare le versioni dei fatti di tutti i dipendenti dell’azienda coinvolti nella vicenda, da Deborah Bergamini a Fabrizio Del Noce, per poter tracciare un quadro un po’ più limpido della situazione, lontano dai clamori della politica e dell’informazione. Tra le audizioni, però, non era prevista quella per Clemente Mimun, in quanto dipendente a libro paga di un’altra azienda. Il direttore del Tg5, però, approfittando del vecchio rapporto di collaborazione con l’azienda di Stato, ha chiesto ed ottenuto di essere ascoltato, per chiarire la propria posizione, dal momento che all’epoca dei fatti in questione egli (direttore del Tg1, ndr) avrebbe rappresentato, secondo la ricostruzione evinta dai brogliacci della Guardia di Finanza, uno dei tramiti tra la Rai e la sua ex (ed attuale) azienda. Ecco come ha riassunto la sua posizione davanti ai giornalisti: “Tra il settembre 1994 e il settembre 2006 ho diretto per quasi otto anni il Tg2, battendo sempre il concorrente diretto, cioè il Tg5 delle 13. Nel periodo successivo, esattamente 52 mesi, ho diretto il Tg1, battendo il mio avversario, il Tg5 delle 20, per 50 mesi a 2. Nel mio percorso professionale in Rai si è registrato il massimo livello di concorrenzialità rispetto ai tg avversari, un rigoroso rispetto del budget, l’esclusiva assunzione di precari interni (oltre 50), e non si è verificato mai alcun episodio di combine con la concorrenza, né per ragioni politiche, meno che mai per tecnicalità legate ai palinsesti. […] Alla Rai, che non mi ha contestato alcunché, ho confermato la mia piena ed assoluta disponibilità anche ad essere riascoltato, in qualsiasi momento, in caso di necessità”. Quanto riportato da Mimun non fa una piega. Tacciato per anni di essere uno degli uomini più fedeli di Berlusconi, i dati parlano per lui: nel periodo in cui era direttore del Tg1 ha stracciato la concorrenza in termini d’ascolti, risollevando il telegiornale dell’ammiraglia Rai dopo anni di risultati poco edificanti. Non vale la stessa considerazione, però, per quanto attiene la limpidezza deontologica della sua esperienza in Viale Mazzini. All’epoca del suo insediamento in Rai, sotto il governo Berlusconi, Mimun fu aspramente criticato da una grossa fetta dell’informazione televisiva e non (oltre che piuttosto violentemente dai suoi colleghi del Tg1) per essere stato il creatore del cosiddetto “panino”. Nei servizi riguardanti tematiche politiche, questa tecnica prevedeva la collocazione, all’inizio ed alla fine della notizia, della parte dedicata rispettivamente al governo e alla maggioranza parlamentare. Per poi imbottire il “panino” con la parte dedicata all’opposizione. La “trovata” provocò indignazione da più parti, dal momento che, come ben si sa, all’epoca il capo del governo era Berlusconi: a causa di questo modo di presentare la notizia, tra l’altro, si dimise in segno di protesta l’allora vicedirettore Daniela Tagliafico, constatando che “così si dà risalto solo al Governo”. Mimun giustificò la sua scelta addossando le colpe alla politicizzazione della Rai, dimenticando forse d’esserne uno dei simboli. Le reiterate accuse di parzialità nella conduzione, mosse tanto dall’allora opposizione quanto dal cdr, gli provocarono un’accesa disputa con quest’ultimo, che lamentò un “atteggiamento pesante” del direttore nei loro confronti. Prima della polemica sull’opportunità di mandare in onda il leghista Calderoli con la famosa maglietta recante le vignette su Maometto (che provocò un caso diplomatico con l’Iran e con altre nazioni mediorientali), Mimun si trovò anche al centro di altre questioni delicate riguardanti l’allora premier Berlusconi. Dalla censura preventiva dell’incontro di Assisi tra Terek Aziz e Formigoni (per motivi di opportunità politica: gli States, appoggiati dall’Italia berlusconiana, avevano appena attaccato l’Iraq, di cui Aziz era il ministro degli Esteri) al comico taglio dell’audio dello scontro dialettico (celebre per i navigatori della rete), al Parlamento europeo, tra Berlusconi ed il deputato tedesco Martin Schulz, con Berlusconi che gli dava del kapò (ed il Financial Times che titolava: “Neanche il telegiornale sovietico di Breznev avrebbe potuto fare di meglio”), i casi in cui Mimun si è trovato coinvolto durante gli anni in Rai non sono stati poi così marginali. Ecco perché, risalendo il caso intercettazioni proprio a quegli anni (2004-2005), pare più che giustificata l’audizione di Mimun da parte dell’Internal Audit (al di là del responso che poi ve ne si trae). E, probabilmente, l’iniziativa sarebbe dovuta partire proprio dallo stesso comitato, senza attendere il desiderio di essere ascoltato del direttore. Bontà sua. (Giuseppe Colucci per NL)